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Voto maggiorato perche non e adatto a tutte le imprese

L’appello di studiosi, investitori e consiglieri indipendenti sul voto maggiorato ha avuto effetto. Il Ministro Padoan ha dichiarato di non avere intenzione di prorogare oltre il 31 gennaio la previsione transitoria nel Decreto Competitività del giugno scorso, che ha introdotto il voto maggiorato, secondo la quale le necessarie modifiche statutarie, di pertinenza delle assemblee straordinarie, potevano essere approvate con i quorum più limitati previsti per le assemblee ordinarie. Tutto bene quindi, a meno di qualche resipiscenza parlamentare? In realtà la questione delle maggioranze è solo un sintomo di un più generale problema che affligge le previsioni del decreto.
Non si tratta tanto dell’abbandono del principio “un’azione, un voto”, comunque presente in numerosi ordinamenti non meno evoluti del nostro, quanto del fatto che il decreto, con previsione del tutto eccezionale, esclude il diritto di recesso del socio che si sia opposto alla modifica statutaria e quindi non gli consente di tutelarsi dalla perdita di valore delle azioni che potrebbe conseguire dalla introduzione del voto maggiorato.
Questa esclusione è del tutto contraria all’impostazione del nostro diritto delle società di capitale, come riformato dalla Legge Draghi, che si basa sul diritto del socio a disinvestire nel momento in cui vengono a mutare le condizioni essenziali dell’investimento compiuto: diritto che è d’altra parte alla base della normativa sull’OPA e che rappresenta la base dell’effetto “disciplinante” dell’azionariato di minoranza nelle società aperte al mercato. Un diritto che sembrerebbe invece opportuno tutelare nel momento in cui ci si propone di aprire il mercato dei capitali agli investimenti nazionali ed esteri, anche attraverso il collocamento di quote delle imprese pubbliche.
Il voto maggiorato può avere giustificazioni: è stato originariamente proposto per incentivare alla quotazione società a controllo ristretto; può garantire la stabilità di un gruppo di comando di successo: i corsi delle tre società, Campari, Amplifon e Astaldi, che finora hanno deciso di introdurre il voto maggiorato non hanno certo sofferto per questo, mentre nelle tre società la modifica statutaria è stata approvata con oltre due terzi dei voti in assemblea.
Tuttavia il voto maggiorato non è probabilmente adatto per società in cui la disciplina imposta dagli azionisti al di fuori del nucleo di controllo è ritenuta importante per assicurare una performance efficiente: come nel caso delle (poche) imprese ad azionariato diffuso della Borsa italiana e soprattutto di quelle a controllo (spesso minoritario) pubblico. In questo caso, la presenza di una vasta platea di azionisti, istituzionali e non, che sottopongono a scrutinio l’attività dei manager esercitando il loro “diritto di uscita” sembra rappresentare un fattore essenziale di disciplina societaria: che verrebbe probabilmente meno se un gruppo limitato di azionisti, o addirittura l’azionista pubblico, si appropriasse dei diritti di voto non proporzionali alla (limitata) partecipazione al capitale. Con inevitabili conseguenze sulla valutazione di mercato e sulle condizioni di raccolta del capitale. Il ripristino della possibilità di recesso del socio dissenziente di fronte a modifiche statutarie che lo danneggino sembra allora opportuna: anche perché questa possibilità farebbe valutare con maggiore cautela l’opportunità di introdurre meccanismi potenzialmente penalizzanti per gli azionisti di minoranza.
ALBERTO PERA

Fonte: Repubblica.it - 9 Febbraio 2015

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