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Vita, morte e miracoli (presunti) della lobby nuclearista

Vita, morte e miracoli (presunti) della lobby nuclearista
Eccola, la lobby dell’atomo, una spectre trasversale che accomuna destra e sinistra. Nel mondo intero fa crescere a ritmo forsennato centrali, anzi, bombe a cielo aperto. In Italia “vuol mettere le mani sulla torta da venti miliardi di euro”. Poco importa che i reattori siano diversi (gli Epr franco-tedeschi) da quelli di Fukushima, non solo più moderni, ma meno vulnerabili e con un diverso sistema di raffreddamento. Polémique d’abord. E la polemica non infuria solo da noi: l’altro ieri il Monde ha dedicato un’articolessa al dibattito “binario”, in bianco o in nero, scoppiato nel paese che da Charles de Gaulle in poi ha più amato l’uranio arricchito.
Ma è davvero così potente la “potente lobby”? Certo ne fanno parte colossi industriali di prima grandezza: i gruppi elettrici (si pensi solo alla francese Edf o all’Enel), i produttori degli impianti, General Electric (che ha costruito Fukushima), Westinghouse, entrambe americane, la francese Areva, la tedesca Siemens, la svizzero-svedese Abb, Ansaldo Nucleare. Senza contare le università, i laboratori privati, uno stuolo di tecnici, scienziati, tutti premi Nobel o candidati. E tuttavia, qual è la vera force de frappe di questo trust di menti acutissime, questa matassa di interessi legati all’uso civile dell’atomo?
Non molta, a giudicare dal peso del nucleare sulla domanda mondiale di energia: nel 2008 non arrivava al 6 per cento e tale resterà fino al 2035. Gas e petrolio passano dal 34 al 37, il carbone sale dal 27 al 29. Se si dovessero adottare politiche aggressive per ridurre le emissioni di CO2, l’atomo potrebbe salire fino all’11 per cento. Ma queste stime precedono la tragedia giapponese. Insomma, nel gioco delle lobby, altre pesano di più, oggi e in futuro. Naturalmente non è solo una questione di cifre. Contano i simboli e qui l’uranio sorpassa persino il petrolio.
Se c’è un paese in cui i nuclearisti sono rimasti sempre in netta minoranza, questo è senza dubbio l’Italia. Il referendum del 1987, sotto l’emozione dell’incidente di Chernobyl, ha visto una vittoria schiacciante del “no”. Il giorno dopo, sono state spente le centrali e buttate le chiavi. Gli italiani non facevano eccezione, sia chiaro.
In Svezia, dove l’energia atomica assicura due terzi dell’elettricità, una consultazione popolare condotta nel 1980 ha sconfitto la lobby nucleare. Ma gli impianti hanno continuato a funzionare, il primo è stato chiuso solo sei anni fa. I governi, socialdemocratici o conservatori, hanno sempre detto che avrebbero rispettato la volontà popolare, “compatibilmente con gli interessi strategici della nazione”. La democrazia svedese, evidentemente, è meno diretta. Difficile sostenere che sia più debole di quella tricolore.
Il complesso nuclear-industriale, del resto, in Italia ha subito batoste a catena. Quel che accadde a Felice Ippolito è una storia davvero istruttiva. Ingegnere e geologo napoletano, nel 1952 viene incaricato di creare il Comitato nazionale per le ricerche nucleari (poi diventato Cnen), con un obiettivo davvero ambizioso: energia garantita per sostenere la ricostruzione e minor dipendenza dall’estero. Con Trino Vercellesse, Latina e il Garigliano, l’Italia allora è il terzo produttore al mondo. Liberal-radicale, fautore della nazionalizzazione, Ippolito diventa un avversario degli industriali elettrici così come dei petrolieri. Nel 1963 il Corriere della Sera insinua che abbia imbrogliato nella gestione del comitato, tirando in ballo le accuse formulate da Giuseppe Saragat. Il ministro dell’Industria Giuseppe Togni lo sospende e fa partire un’indagine affidandola a Giovanni Leone. Un anno dopo, Ippolito viene condannato a undici anni di carcere per peculato. Sarà graziato da Saragat, diventato presidente della Repubblica.
Ridimensionati i sogni atomici, la potente lobby diventa un circolo di affezionati che non fa più paura, ma evoca gli spettri di cui si nutrono i mass media.

Fonte: Il Foglio del 17 marzo 2011

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