• giovedì , 26 Dicembre 2024
Vi spiego gli algoritmi dei terroristi (di Isis e non solo)

Vi spiego gli algoritmi dei terroristi (di Isis e non solo)

di Giuseppe Pennisi

Vi spiego gli algoritmi dei terroristi (di Isis e non solo)
Giuseppe Pennisi Spread
L’analisi dell’economista Giuseppe Pennisi
In queste settimane, il nesso tra terrorismo ed economia è prepotentemente alla ribalta. Da un lato, in Italia, e nel resto d’Europa, l’allarme terrorismo che ha messo in moto “prove generali” su cosa fare in caso di attacchi a siti storici, reti di trasporto ed altri possibili obiettivi di gruppi terroristici che intendano coniugare stragi con alto contenuto mediatico. Da un altro, ogni giorno i giornali e le televisioni sono pieni di notizie su attentati terroristici al cuore dell’Europa.
Un’analisi, effettuata una decina di anni fa da due francesi, Bertrand Maillet e Thierry Michel della Università Panthéon Sorbonne, e pubblicata sulla “Review of International Economics”, concludeva che pure in termini meramente economico-finanziari (e senza tenere conto delle perdite di vite umane) l’attacco alle Torri Gemelle è stato il terzo più grave dei nove più grandi incidenti censiti nei libri di storia dell’economia e della finanza. Maillet e Michel utilizzano un indicatore
statistico innovativo (analogo alla scala Richter per misurare il grado dei terremoti). È importante notare che il computo venga fatto da due accademici francesi, di rigorosa formazione matematica. Un altro lavoro ancora “A law and economics perspective on terrorism” di Nuno Garoupa (Università di Lisbona), Jonathan Klick (Florida State University College of Law) e Francesco Parisi (George Mason University School of Law – traccia un bilancio di quanto realizzato dall’“economia del terrorismo” (un raggruppamento disciplinare riconosciuto in molte università americane ed europee ma ancora poco seguito in Italia) negli ultimi 40 anni.
È noto che il terrorismo aumenta l’avversione al rischio, comprime sia i consumi sia gli investimenti ed incanala il risparmio verso attività a basso rendimento; tutto ciò ha l’effetto di ridurre di circa un terzo la crescita reale rispetto a quella potenziale e spiega il rallentamento dell’economia europea dall’inizio del decennio in quanto nel Vecchio Continente non si è risposto all’attacco dell’11 settembre (ed agli altri grandi attentati) con lo scatto di vitalità che ha caratterizzato la reazione americana. L’economia del terrorismo e dell’antiterrorismo esplora non solo le conseguenze ma anche e soprattutto come la cassetta degli attrezzi serve a mettere in atto strategie per contenere e, se possibile, estirpare il fenomeno.
Prendiamo l’avvio dalle notizie ricordate in apertura di questo articolo. Ci sono nessi (almeno finanziari) tra terrorismo, per così dire, “nostrano” e quello di matrice mediorientale. L’apertura degli archivi di Mosca, Praga e Bucarest – ricordiamolo – ha dimostrato come negli Anni 70 (chi se li ricorda?) ci fossero legami cospicui tra il terrorismo italiano e tedesco, da un lato, e l’Europa che allora veniva chiamata “a socialismo reale”.
Quali le lezioni che traiamo dell’”economia dell’antiterrosismo”, ad esempio dai tre volumi i 1700 pagine curati da Todd Sandler e Keith Hartley, dai lavori di Bruno Frey della Università di Zurigo e da quelli di Mats Lundhal della Università di Stoccolma e di Kurt Konrad della Libera Università di Berlino?
In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da uno solo Paese e di cui beneficia tutta la comunità mondiale; dopo la risoluzione Onu anche Siria e Libano hanno dato la loro disponibilità a operare di concerto con il resto del mondo per bloccare i soldi del terrore. In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazioni per quanto riguarda la vigilanza bancaria. Negli Stati Uniti, sono state potenziate, negli ultimi due anni e mezzo, le funzioni e le risorse a disposizione del Tesoro – tramite l’Irsa-Usa ed il Comptroller of Currency (un ufficio generale di alta amministrazione del ministero); dobbiamo chiederci se le nostre attività di vigilanza siano attrezzate in caso di bisogno. In terzo luogo, occorre ridurre la capacità di attrazione abbassando l’attenzione dei media e aumentando, al tempo stesso, il costo opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo.
Secondo Bruno Frey dell’Università di Zurigo, il decentramento può ridurre in misura significativa i benefici ai terroristi in quanto implica un forte controllo sociale. Più complicato “offrire alternative” a potenziali terroristi: ciò vuole dire “strategie negoziali” o, in termini di gergo economico, “cooperative”. Percorso che pochi Governi sono pronti a seguire anche in quanto, per ragioni non economiche, “combattere il terrorismo a tutti i costi” è uno slogan importante per tenere alto il morale. I leader del terrorismo si oppongono ad una strategia che offre alternative proprio per le stesse ragioni: mantenere le truppe unite ed in continua tensione. Lo conferma un’analisi di Eli Berman (della scuola californiana di Todd Sandler) nella monografia “Hamas, Taliban and the Jewish Underground: an economist’s view of radical religious militias” (“Hamas, i talebani, le milizie ebree sottotraccia: il punto di vista di un economista sul terrorismo radicale religioso”).
Modelli basati sulle teorie delle scelte razionali spiegano che atti di violenza gratuita distruggono opzioni alternative e rafforzano la lealtà di gruppo.
Aumentare gli aiuti a Paesi dove c’è terreno fertile per il terrorismo al fine di fare sì che gli aratri rimpiazzano le bombe? È la speranza di tante anime belle e della lobby della cooperazione allo sviluppo. Un’analisi di Michael Mandler e Michael Spagat (ambedue dell’Università di Londra) pubblicata dal Centre for Economic Policy Research (“Foreign aid designed to diminish terrorist atrocities can increase them”) dimostra, sulla base di teorie economiche e analisi empiriche, che si tratta di un’ipotesi errata: gli aiuti affinano le spade dei terroristi, dentro e fuori i confini nazionali.
Non è un’idea nuova. Già quaranta anni fa, in “Maniacs, panics e crashes” (“Manie, panico e crolli”), Charles Kindleberger affermava che “nel complesso i mercati funzionano bene” nell’annusare l’approssimarsi di crisi politiche, di tensioni, di guerre e, quindi, anche di atti di terrorismo. Dall’inizio degli Anni Settanta esiste un vero e proprio filone di analisi economica che applica al terrorismo la strumentazione della teoria dei giochi e dell’econometria. In una prima fase, ha avuto il suo centro all’Università di Chicago dove è di casa l’assunto che milioni di teste ragionano meglio di una sola e che il mercato (reale o virtuale) è il veicolo per farle incontrare e trarne il meglio. Grazie ai lavori del centro sull’”economia del terrorismo” di Chicago è stato, ad esempio, possibile simulare le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero dei dirottamenti da 30 a circa 2 l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno pure sviscerato l’”effetto di sostituzione” nelle strategie e nelle tattiche: posto un argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che, però, comportano costi maggiori e per essere attuati, necessitano di risorse molto più ampie e di risultati attesi molto più consistenti.
In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventato il cenacolo più importante di studi di “economia del terrorismo”; la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la teoria dei giochi con l’economia dell’informazione e della comunicazione e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari. Da un lato, grazie ad elaborati modelli esplicativi, documentano come il “terrorista razionale” cerchi risultati con vasto contenuto mediatico e comunicativo. Da un altro, gli studi sugli “obiettivi anti-terroristi mirati” sottolineano come un “anti-terrorismo a vasto raggio od a pioggia” avrebbe costi elevatissimi e avrebbe comunque molti fori; sono preferibili strategie di prevenzione incentrate sulla decodificazione di segnali indiretti.
Per questa ragione, la proposta imperniata sulla simulazione di mercati di derivati finanziari si è mostrata particolarmente efficiente nell’annusare quelli che in gergo vengono chiamati i “sentiment” (gli “umori”) e i “roumors” (“rumori di fondo”) delle piazze nei confronti di avvenimenti (fusioni aziendali, innovazioni di prodotto e di processo) che gli interessati vogliono tenere segreti. Analogamente, le scommesse sul terrorismo possono captare “sentiment” e “roumors” su preparazioni di attentati, anch’esse tenute segretissime. D’altronde, avere posto “taglie” sui più alti dirigenti dei terroristi non è che il primo passo; in termini finanziari, tali “taglie” sono “il valore sottostante” i “futures” e le “options” di un mercato delle informazioni (in gergo, news) sul terrorismo.

 

Fonte: Formiche.it - 24/03/2016

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