• giovedì , 21 Novembre 2024

Un’Europa senza ricette

Il commento meno deprimente degli economisti è «forse abbiamo toccato il fondo». Quasi tutta l’Eurozona è impantanata nella recessione; perfino la Germania procede a fatica.
La debole ripresa che avevamo sperato di vedere prima dell’estate è ora rinviata a dopo. Per l’Italia è ormai troppo poco prevedere un «decennio perduto».
Gli anni necessari per tornare al livello di reddito precedente alla crisi finanziaria saranno forse una dozzina.
Da solo il nostro Paese – non illudiamoci – può fare poco. Già non sarebbe facile il compito per un governo di larghe intese dove i partiti si coprissero le spalle a vicenda sull’iniziale impopolarità delle misure necessarie a ripartire. Abbiamo invece, dietro le indubbie qualità del presidente del Consiglio e del ministro dell’Economia, una coalizione che sembra orientarsi sul principio, per così dire, del «minimo comune demagogico».
Invece di un progetto, si profilano compromessi tra contrastanti esigenze di propaganda. Useremo nel 2013 e nel 2014 tutto lo spazio concesso dalla originaria regola dell’euro, il deficit pubblico entro il 3% del Pil. Per fronteggiare una recessione così grave alcuni suggeriscono una deroga. Ma non è questione di Paesi nordici cattivi: nelle condizioni dell’Italia un deficit superiore al 3% renderebbe il debito pubblico visibilmente insostenibile.
Una deroga avrebbe senso se lo sforamento del 3% durasse un solo anno e se i soldi fossero spesi bene, accompagnati a riforme di svolta, tipo ripensare da capo la burocrazia. Chi è in grado di garantirlo? Se nemmeno noi italiani ci fidiamo di noi stessi, come risulta dal grande sondaggio dell’americana Pew pubblicato l’altro giorno, possiamo pretendere che si fidino gli altri?
Non che altrove le idee abbondino. Ad esempio la doppia intervista pubblicata ieri dal quotidiano francese «Les Echos», al tedesco Juergen Stark ex membro dell’esecutivo Bce, e al ministro Arnaud Montebourg, ala sinistra del governo di Parigi, contrappone banalità ugualmente sterili. La Francia non sa spiegarsi perché soffra quando le sue imprese pagano tassi di interesse esigui, un sogno di qua dalle Alpi. La Germania ha denunciato per mesi pericoli di inflazione e ora l’aumento dei prezzi è all’1,2% appena.
Poco utile tuttavia è recriminare sui dissidi tra nazioni. La stretta di bilancio collettiva dei due anni passati, che ora constatiamo esagerata, fu imposta solo e soltanto dall’instabilità dei mercati; ricordiamoci che l’Italia è andata vicina al crack nel novembre 2011. L’ideologia nordica del rigore ha aggiunto il suo peso solo più tardi, inducendo a perseverare contro l’evidenza.
E se il problema maggiore resta l’instabilità dei mercati finanziari, c’è di peggio del goffo apparato europeo di regole di bilancio sulla carta feroci e di deroghe contrattate caso per caso senza trasparenza. Gravissima è l’omertà tra i governi e i poteri bancari nazionali che impedisce di giungere in fretta a un assetto solido del credito – l’unione bancaria – pur di non cedere potere.
La Borsa che sale in una giornata di ieri ci dice quanto la situazione sia fragile. Nel mondo gli Stati Uniti e il Giappone creano moneta in abbondanza che tiene bassi anche i tassi del debito pubblico italiano e alte anche le nostre quotazioni azionarie. Stanno facendo per noi una scommessa che l’area euro divisa non è stata capace di fare, eppure anch’essa un ripiego nell’incapacità di rendere la finanza più stabile. Con tutti i suoi limiti, c’è solo da sperare che gli riesca.

Fonte: La Stampa del 16 maggio 2013

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