• martedì , 24 Dicembre 2024

Una trincea ideologica

La riforma del mercato del lavoro è molto più ampia della revisione dell’articolo 18. Estende gli ammortizzatori sociali a categorie che ne sono attualmente escluse, riduce la precarietà. Aspira a stabilizzare e a rendere più facili le assunzioni definitive. È emendabile, ma va nella direzione giusta. Un licenziamento dovuto a ragioni disciplinari, per il quale il giudice può ordinare il reintegro, è aggirabile con una motivazione economica e il solo risarcimento da 15 a 27 mensilità? Certo, lo è. L’abuso va contrastato con norme chiare e rigorose.
Le reazioni sindacali sono tutte comprensibili. Meno i ripensamenti di Bonanni e Centrella che al tavolo con il governo dicono una cosa e poi se la rimangiano, magari dopo aver ascoltato un esponente dell’episcopato. Il travaglio interno del Pd è da rispettare. La dialettica fra laburisti e liberali vivace e salutare. Colpiscono, però, sia la durezza di D’Alema, che parla del governo come un «vigilante di norme confuse», sia di Bersani che teme l’esautorazione delle Camere. Il Parlamento, ai tempi della concertazione, ratificava soltanto gli accordi tra le parti sociali. Il segretario del Pd se ne è uscito anche con la seguente frase: «Non morirò monetizzando il lavoro». Nobile e curioso. Solo l’1 per cento delle pratiche di licenziamento gestite dalla sola Cgil tra il 2007 e il 2011 è sfociato in riassunzioni o reintegri. E poi: gli accordi sui prepensionamenti e sugli esodi incentivati che cosa sono se non una monetizzazione di posti di lavoro che spariscono?
I toni apocalittici di molti commenti sono poi inquietanti. Descrivono un Paese irreale. Tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe, che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro. Dipingono gli imprenditori (che hanno le loro colpe) come un branco di lupi assetati che non aspetta altro se non licenziare migliaia di dipendenti. Come se adesso le aziende in crisi, e non sono poche purtroppo, non riducessero l’occupazione e non vi fosse il dramma di tanti lavoratori abbandonati in cassa integrazione o senza sussidi e possibilità di un reimpiego. E come se l’Italia non fosse ricca di tantissime realtà, grandi e piccole, in cui il lavoro è difeso e rispettato. E, ancora, tanti imprenditori e dipendenti non condividessero le stesse ansie e lo stesso amore per ciò che producono e per i valori comuni di cui sono portatori. Sono commenti che paventano il sibilo di una tagliola che cadrebbe, in un sol colpo, su decenni di conquiste dei lavoratori.
Scrive Guido Viale su il manifesto: «I capi girano nei reparti e minacciano i delegati non allineati e gli operai che resistono all’intensificazione del lavoro annunciando: appena passa l’abolizione dell’articolo 18 siete fuori!». Davvero è questo il clima che si respira nelle fabbriche, al di là di qualche isolato episodio? O è una ripetizione logora di schemi mentali del passato, il tentativo di creare un solco ideologico, una trincea fra capitale e lavoro, la costruzione artificiosa di un nemico di classe?
Lo Statuto dei lavoratori fu, nel 1970, un’importante conquista sociale. Sono passati 42 anni, la società è cresciuta, i diritti sono meglio protetti. Ma in parti del sindacato e della sinistra la nostalgia per quegli anni di lotte operaie e studentesche è forte. La storia andrebbe riletta, anche per risparmiarci le code spiacevoli e le derive violente di cui dovremmo coltivare la memoria.

Fonte: Corriere della Sera del 26 marzo 2012

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