Nel dibattito in corso sulle ennesime modifiche al sistema previdenziale c’è un grande assente: l’ormai vasta categoria di lavoratori a termine, precari, saltuari, che avrebbero – se versassero continuativamente i contributi – una pensione pari a circa il 37% dell’ultimo reddito.
Alcuni stanno formulando delle proposte, come, su La Voce, Nicola Rossi (La strada dei prestiti contributivi), che – giustamente – entrano nel merito della riforma della previdenza, ma che, dato l’attuale contesto politico, proprio per questo hanno poche probabilità di essere accolte nel breve termine. In attesa di provvedimenti strutturali si potrebbe fare qualcosa che non graverebbe sulla finanza pubblica e darebbe però a questi lavoratori un’opportunità per un miglior futuro previdenziale. Si potrebbe cioè dar vita ad un meccanismo di previdenza complementare volontaria che, pur utilizzando strumenti di mercato, sia senza costi per i beneficiari, in modo da massimizzare l’accumulazione, e offra nel contempo le massime garanzie possibili.
L’idea è quella di istituire “conti individuali previdenziali” (Cip), che potrebbero essere gestiti dalle banche e dalle Poste. Il lavoratore versa sul suo conto quello che vuole e quando vuole, ma i soldi versati non possono più essere ritirati. Ogni fine mese, se il saldo ha raggiunto almeno 250 euro, i soldi vengono automaticamente investiti in specifici titoli di Stato emessi appositamente. Questi titoli (se si vuole trovare un nome, potrebbe essere CTP: certificati del Tesoro previdenziali) dovrebbero prevedere il rimborso del capitale solo al momento del decesso dell’interessato e dovrebbero essere ad indicizzazione reale; più precisamente, l’indicizzazione dovrebbe essere al Pil, con lo stesso meccanismo della rivalutazione dei contributi della previdenza obbligatoria. La cedola, naturalmente, non viene pagata ma si capitalizza anno per anno, fino al raggiungimento dell’età della pensione di vecchiaia.
Da quel momento la cedola comincia invece ad essere pagata al titolare del Cip e costituisce dunque l’integrazione della pensione pubblica. Il capitale maturato non può essere intaccato – visto che deve garantire la rendita – ma è naturalmente di proprietà del titolare e alla sua morte viene quindi riscosso dai suoi eredi.
Se il titolare non ha eredi o non vuole lasciare eredità, può chiedere di eseguire un’operazione di coupon stripping: continuerà a riscuotere le cedole finché vive, ma può vendere in tutto o in parte il “mantello”, che si trasforma per l’acquirente in un titolo senza pagamento di cedola riscuotibile alla morte del proprietario, con un meccanismo simile a quello dell’acquisto della “nuda proprietà” degli immobili.
Ci sono alcune condizioni collaterali indispensabili al buon funzionamento del meccanismo.
– Lo Stato non deve tassare in nessun modo durante la fase di accumulazione, come non sono tassate le somme che vengono investire in titoli di Stato e come non sono tassati i contributi della previdenza obbligatoria. E’ vero che in questo caso si tratta di complementare, ma se si è sbagliato sui Fondi pensione non c’è nessun obbligo di perseverare nell’errore. L’armonizzazione andrebbe fatta, ma nel senso di detassare anche l’accumulazione dei Fondi. Si può obiettare che, in mancanza di ciò, ci sarebbe un effetto di “spiazzamento” nei confronti di questi ultimi. Vero, ma solo per quelli aperti, essendo quelli contrattuali praticamente obbligatori. Piangerebbero solo i gestori finanziari dei Fondi aperti, cosa di cui il Paese potrebbe farsi facilmente una ragione. E si aprirebbe forse la strada a una revisione dell’imposizione sui Fondi. Il privilegio fiscale sarebbe giustificato dalla finalità e dall’indisponibilità di questo risparmio.
– La tassazione sarà applicata nel momento del godimento. Quando il titolare riscuoterà la rendita, questa sarà tassata al 12,5%, come le cedole dei titoli di Stato; pure al 12,5% dovrà essere tassata la differenza reale tra contributi versati e capitale maturato al momento del realizzo del capitale. E’ un trattamento simile, ma meno favorevole, a quello di un qualsiasi investitore in titoli di Stato, che però non ha vincoli di sorta.
– Sui Cip non dovrà gravare nessuna spesa, né per i versamenti, né per l’amministrazione del conto: la remunerazione per gli intermediari sarà costituita dalla gestione delle giacenze di liquidità finché non si raggiungono i 250 euro dell’investimento automatico.
– Anche l’investimento dovrà essere senza spese per il sottoscrittore, come del resto avviene oggi quando si acquistano titoli pubblici in asta e non sul mercato. Anche questo, dunque, non è un “privilegio” che costa alla finanza pubblica.
Un meccanismo del genere assicura al titolare del conto un rendimento migliore di quello del Tfr e altrettanto sicuro. Anzi, più sicuro, perché come è noto se l’inflazione supera il 5% il rendimento reale del Tfr diventa negativo.
Dal punto di vista della finanza pubblica c’è una perfetta neutralità, perché quella parte aggiuntiva di debito pubblico aumenta esattamente allo stesso tasso del Pil. Se poi la massa dei CTP dovesse diventare rilevante, avrebbe anzi positivi effetti di stabilizzazione del debito pubblico. Oggi viviamo un periodo di tassi finanziari storicamente bassi, ma titoli a lunghissimo termine remunerati al Pil costituirebbero certamente, nel lungo periodo, un risparmio per il Tesoro.
Dal punto di vista del titolare del Cip i vantaggi sono evidenti. Non esiste sul mercato uno strumento analogo con pari garanzie di rendimento, anche per l’assenza di spese di amministrazione e gestione. Inoltre la “portabilità” è perfetta: è assolutamente irrilevante il tipo di lavoro che si fa, se si cambia lavoro o persino se si versa senza lavorare. L’unico limite è l’indisponibilità delle somme una volta che siano state versate, ma ciò è indispensabile perché è rarissimo che si riesca ad evitare di utilizzare, nel corso della vita, un capitale accumulato che si avesse la libertà di riscuotere.
Un solo utilizzo extra-previdenziale potrebbe essere consentito per le somme accumulate nei Cip. Dato che per chi non ha un reddito fisso dimostrabile è quasi impossibile ottenere un mutuo da una banca, si potrebbe permettere che il Cip sia usato come garanzia a fronte della concessione di un mutuo per l’acquisto della prima casa. Si contribuirebbe in questo modo ad alleviare un altro non piccolo problema dei lavoratori precari.
Ci si può chiedere perché l’impiego delle somme raccolte dai Cip debba essere limitato a quel tipo di titoli pubblici. La risposta è che si vuole offrire una garanzia di capitale e di rendimento senza doverne pagare il costo di mercato. Allo stesso tempo, però, questa garanzia non è un costo per la finanza pubblica, per la quale anzi, come si è detto, lo strumento dovrebbe essere vantaggioso. Resta naturalmente il rischio di default dello Stato, ma si tratta di un rischio statisticamente meno frequente e meno probabile delle crisi dei mercati finanziari a cui sono esposti i sottoscrittori dei Fondi pensione.
Questo tipo di strumento dovrebbe essere aperto a tutti coloro che volessero avvalersene. Per inciso, costutirebbe un’alternativa molto migliore del versamento nei Fondi pensione per il Tfr. Di fatto, è difficile pensare che vi ricorra chi già versa pesanti contributi obbligatori più altri contributi per i Fondi contrattuali, cioè i lavoratori dipendenti. E’ presumibile dunque che verrebbe sfruttato da tutta l’area del lavoro autonomo. Anche dalla parte “non bisognosa”, certo: ma bisogna considerare innanzitutto che quella si avvia ormai a diventare una minoranza, e in secondo luogo che il meccanismo non concede nessun beneficio maggiore di quelli di cui già fruisce chi investe in titoli di Stato.
Una pensione complementare per i lavori flessibili
Commenti disabilitati.