• venerdì , 18 Ottobre 2024

Una nuova marcia per salvare Mirafiori

Un tempo Mirafiori era il cuore della Fiat. Ora non più. La grande fabbrica torineseè per lunghi periodi bloccata dalla cassa integrazione. Il futuro è a rischio. Da poco, peraltro, come a Pomigliano, sembra essersi aperta una speranza ma le trattative si sono presto interrotte, questa volta per iniziativa dell’ azienda che denuncia una presunta indisponibilità dei sindacati – soprattutto della Fiom – ad accettare un contratto aziendale in luogo del vecchio contratto nazionale. Per ragioni tutte sue (il timore di perdere il maggiore aderente e di ridursi a una congerie di piccole aziende) anche la Confindustria si mostra refrattaria di fronte alla prospettiva di una scissione. Da ultimo spera nella mezza promessa di Marchionne di una futura Federauto. Ma il vero pericolo lo corrono i lavoratori. Non a caso Pietro Ichino, uno dei massimi giuslavoristi italiani, nonché parlamentare pd, ha ricordato che l’ Alfa di Arese finì per chiudere i battenti, malgrado una offerta generosa di rilevarla da parte della giapponese Nissan, proprio per l’impuntatura sindacale di non scostarsi dalla inderogabilità del contratto nazionale. Oggi il quadro è assai peggiore poiché, mentre allora l’ Alfa Romeo, se pur decurtata, finì nelle braccia della Fiat, questa volta nessuno si presenterebbe per Mirafiori con offerte più suadenti. Certo, è storicamente comprensibile l’ attaccamento della Fiom ad un sistema che presuppone l’ unità dei metalmeccanici, quale che sia la dimensione e la tipologia della fabbrica, con normative e condizioni salariali, sostanzialmente omogenee ovunque. Un obbiettivo nobile ma impossibile da quando la produzione è dislocabile ovunque, il mercato è ad un tempo globalizzato e soggetto alla più grave crisi dal 1929 ad oggi, con margini di competizione misurabili nei termini di una produttività avanzatissima. La scelta è, quindi, elementare: ieri con epicentro Pomigliano, oggi con epicentro Torino, si tratta di rispondere al quesito: vogliamo o no mantenere nel nostro Paese una industria dell’ auto, assicurandone la competitività, oppure no? Perché da qui bisogna partire per poi trattare al meglio condizioni di lavoro e salari. Sul tavolo di Mirafiori c’ è l’ offerta di un investimento di un miliardo di euro con due modelli di alta gamma, un’ Alfa e una jeep Chrysler. Si tratta, cioè, della prima produzione italo-americana uscita dall’ accordo perseguito da Marchionne, col patrocinio anche finanziario di Obama. Questo è il primo dato da tener presente. Il secondo, altrettanto se non più importante, è che la maggioranza azionaria della Chrysler è detenuta dai sindacati dell’ auto Usa. Quando mai questo «padrone» particolare potrebbe accettare condizioni del tutto diverse trai lavoratori di Detroite quelli di Mirafiofi? Per questo è stata creata una «newco» (una nuova compagnia), almeno in partenza fuori dal contratto italiano e dalla Confindustra. Ciò che conta è una nuova organizzazione del lavoro, con un diverso uso dei tempi e dello straordinario (o 18 turni, compreso il sabato, oppure 4 giorni di lavoro per 10 oree3 giorni di riposo) e la sottoscrizione di una «clausola di responsabilità» per evitare punte di assenteismo anomalo o di sciopero durante lo straordinario concordato fra le parti. Su queste deroghe al contratto nazionale si è incagliata la trattativa. Dietro vi è il timore della Fiom che rivendica addirittura il contratto del 2008, le paure della Marcegaglia, la diffidenza della «newco» che non vuole invischiarsi in uno dei soliti tira e molla all’ italiana. Il rischio che salti tutto è grandissimo. Occorrerebbe uno scatto, una riedizione in altra veste della «marcia dei 40.000». Potrebbe tentarla Piero Fassino, dando, con l’ appoggio di Chiamparino, un senso forte alla sua candidatura a sindaco, per la convocazione di un tavolo con la partecipazione di tutte la istituzioni della città e della Regione che imponga l’ accordo, al di là delle esegesi bizantine sull’ inquadramento del contratto. Ne va della salvezza non solo di Mirafiori ma di Torino.

Fonte: La Repubblica del 13 dicembre 2010

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