• giovedì , 21 Novembre 2024

Una nazione allo specchio

Grande è la confusione sotto il cielo invernale del Paese. E irresistibile la tendenza a trasformare un dramma in farsa. L’ampiezza del fenomeno Grillo non era stata prevista. Anche da noi, ammettiamolo. Ma questo soccorso ai vincitori, che non esclude grandi imprenditori e raffinati intellettuali, e il tentativo disperato del Pd di rivalutarli, all’improvviso, come costole della sinistra, ha qualcosa di patetico, di surreale. Il modello Sicilia ( sic ), che ha associato il Movimento 5 Stelle all’incerta presidenza Crocetta, ha avuto per ora un solo risultato: l’opposizione al radar americano di Niscemi, gettando alle ortiche accordi internazionali. Inutile parlarne.
Nel programma dei cinquestelle vi sono anche alcuni passaggi condivisibili, per carità, ma nel suo insieme, se letto bene, è una straordinaria scorciatoia alla povertà. Alla decrescita infelice. E il consenso delle urne non attenua la pericolosità di alcune proposte, come la settimana lavorativa di 20 ore (chi paga?). Vanno però compresi e non sottovalutati il malessere e il disagio di un voto di massa, effetto della disoccupazione, della precarietà, della caduta dei redditi, dell’aumentata disuguaglianza sociale, della protervia dei partiti che votano sacrifici immediati (le pensioni e le tasse) e ritardano il contenimento dei propri abnormi costi. Ma in un Paese serio non si può restare appesi per settimane dopo il voto alle labbra di un capo politico (non c’è più nulla di comico) che se ne sta a casa sua o ai proclami millenaristi del suo guru, peraltro non votato da nessuno.
Un sistema politico normale, con partiti responsabili e istituzioni forti, ragiona sui fatti e sui numeri, non insegue goffamente i voti perduti, non corteggia l’avversario denigrato fino a poche ore prima. Fa i conti con la realtà. Amara, amarissima. Aggravata da una campagna elettorale scellerata in cui sono stati promessi sgravi fiscali per 160 miliardi, si è detto che lo spread (salito in questi giorni di 100 punti) non conta, si è dipinto un Paese che non c’è, immaginario, schiacciato da un’Europa matrigna, senza dire nulla di concreto su come tagliare le spese e aggredire il debito pubblico. Il sistema politico di una nazione che ha fondato l’Unione Europea, dotata ancora di un minimo di orgoglio – ed è questo il punto vero -, mette gli interessi generali davanti a tutto, prima dei destini personali di un leader, di una segreteria, del futuro di un partito, dell’identità e della purezza di una tradizione politica. Primum vivere.
Giorgio Napolitano ieri ha rivolto un appello al senso di responsabilità delle forze politiche. Necessario. Toccherà ancora una volta a lui dipanare un’incredibile matassa. Farà come sempre la scelta migliore e probabilmente affiderà un incarico esplorativo al leader Pd, il partito che ha ottenuto più voti, ma che non ha la maggioranza. Il tentativo di Bersani, così com’è attualmente descritto, è però destinato al fallimento, anche per le opposizioni interne al suo partito. L’idea di una curiosa alleanza con i cinquestelle, non sembra incontrare il favore del Quirinale.
E allora, che fare? Tornare subito al voto è impossibile, oltre che suicida. Napolitano non può più sciogliere le Camere. Il governissimo (Pd, Pdl e Scelta civica) viene considerato un insulto, anche se combacia con la «strana maggioranza» che ha sostenuto Monti. La fantasia delle formule politiche è illimitata, ma la sostanza, alla fine, non sarà molto dissimile dall’intesa che ha sostenuto l’attuale governo. Anzi, non è escluso che questo esecutivo possa essere chiamato a svolgere un tempo supplementare con programma limitato alla riforma elettorale, riforma che Napolitano aveva chiesto a gran voce prima del voto e che i partiti, nella loro testarda miopia, non hanno voluto fare.
Antonio Polito sul Corriere del primo marzo ha proposto un esecutivo, tecnico o politico, magari guidato da un giovane o da una donna, sostenuto anche indirettamente dalle principali forze politiche. Con un mandato circoscritto ad alcune riforme. Non più rinviabili anche per l’incalzare della sfida politica dei grillini che va raccolta sul piano dei programmi e non sull’asse delle alleanze. Michele Salvati, sul Corriere di ieri, ha sottolineato il fatto che in un quadro politico drammatico si apre comunque un’opportunità positiva, quella di riformare la nostra legge elettorale sul modello francese: uninominale e doppio turno (la proposta del Pd) e il presidenzialismo (voluto dal Pdl). Uno scambio virtuoso. Il Partito socialista francese ha ottenuto alle ultime presidenziali una percentuale pressoché uguale a quella del Pd, ma Hollande governa sicuro per cinque anni. E ancora ieri sul Corriere , Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, paladini della lotta contro gli sprechi e i privilegi della casta, hanno scritto che ormai non vi è più alcuna scusa, che bisogna dare un taglio netto ai costi della politica. Reale e non simbolico. Come si vede, parte del programma di un ipotetico governo, di minoranza, di scopo, del presidente, di responsabilità nazionale, chiamatelo come vi pare, è già scritto nel diario dell’emergenza italiana.
C’è un precedente che Napolitano probabilmente richiamerà nel corso delle sue consultazioni. Dopo le elezioni del giugno del 1976 la Democrazia cristiana prese il 38 per cento dei voti e il Partito comunista fu sconfitto con il 34. Ma Aldo Moro disse che i vincitori erano due. E, in una situazione di difficoltà economica paragonabile a quella attuale, i maggiori partiti si sedettero a un tavolo e trovarono un accordo che peraltro consentì nei due anni successivi un discreto aggiustamento dei nostri conti e l’abbassamento dell’inflazione. Preistoria, dirà qualcuno, e oggi non ci sono vincitori, a parte Grillo. Sì, ma nelle immagini ingiallite di quel compromesso storico, peraltro assai criticato come responsabile del consociativismo, vi era un senso della responsabilità nazionale che oggi, se non perduto, è largamente annacquato. Sia la Dc sia il Pci ne pagarono elettoralmente le conseguenze. Ma il Paese venne prima. Qualcuno poi ricorderà che in quegli anni fummo costretti a chiedere il sostegno del Fondo monetario e forse qualcosa di analogo potrebbe accadere nei prossimi mesi se dovremo firmare un programma di aiuti per abbassare il costo del rifinanziamento del nostro debito. Questa ipotesi è rimasta sotto traccia nel corso della campagna elettorale. Ma riemergerà prepotentemente nelle prossime settimane. Un eventuale esecutivo di qualsiasi natura dovrebbe preoccuparsi di inquadrare scelte economiche urgenti a favore di famiglie e imprese per stimolare i consumi e la crescita in una sorta di protocollo europeo.
L’ultimo paradosso di questa sciagurata congiuntura italiana, incomprensibile agli occhi degli stranieri, è che le tasse, in virtù dei provvedimenti decisi dagli ultimi due governi, continueranno a crescere. In automatico. La pressione fiscale era nel 2012 al 44 per cento. Salirà ancora. Qualcuno, sui mercati, nel perdurante cinismo anti italiano, è convinto che non avere un governo, in un Paese apparentemente ingovernabile, sia la migliore delle ipotesi. L’aggiustamento di bilancio sarebbe assicurato. Morti, feriti, aziende che chiudono, posti che saltano non contano agli occhi di chi guarda soltanto ai tassi d’interesse. Ai nostri ovviamente sì. Un’altra ragione, tra le tante, per avere presto un esecutivo, di qualsiasi genere, con un programma preciso, in un periodo di tregua, che risponda alla legittima domanda del voto con poche riforme, vere e coraggiose.

Fonte: Corriere della Sera del 3 marzo 2013

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