In Italia, come in Europa, rimane la difficoltà ad adottare le riforme necessarie ad affrontare i due problemi, tra loro connessi, che rischiano di far saltare la costruzione europea e in particolare l’Unione monetaria: la bassa crescita complessiva e la crisi dei debiti sovrani. Il necessario consolidamento fiscale blocca la crescita e impedisce gli investimenti strutturali richiesti dalla Strategia Europa 2020. Contestualmente, la riduzione progressiva del potenziale di crescita determina la sfiducia dei mercati finanziari circa la sostenibilità dei debiti sovrani dei Paesi membri.
Per questo la creazione degli eurobond sta dominando il dibattito italiano ed europeo. Un dibattito che ho seguito con interesse perché, già alcuni anni fa (Brunetta-Preto, sul Riformista dell’11 febbraio 2005) li consideravo uno strumento necessario per finanziare la competitività e la crescita in Europa.
Da molti esponenti politici e commentatori gli eurobond sono considerati la migliore soluzione per far fronte al finanziamento dei debiti sovrani dei Paesi-euro più in difficoltà, e per reperire risorse da destinare alla crescita economica. I due obiettivi possono richiedere l’adozione di due strumenti diversi, con procedure specifiche, o si può pensare a uno strumento unico per far fronte alle due esigenze. Tuttavia, è chiaro che, essendo i due obiettivi strettamente connessi, non si risolve il problema se lo strumento degli eurobond, cioè uno strumento di finanziamento alimentato da debito comunitario, sia destinato solo a soddisfare uno dei due scopi.
Benché la soluzione tecnica abbia importanza, il vero nodo da sciogliere è politico: convincere il Governo tedesco, fin qui diffidente verso gli eurobond. Senza la Germania non si va da nessuna parte. D’altro canto i tedeschi sanno bene che la posta in gioco per il Paese è molto alta. La stabilità dell’area euro è, senza dubbio, prioritaria nella scala degli interessi nazionali tedeschi per almeno due motivi. Il valore dell’euro, che riflette l’economia del complesso dei Paesi dell’area monetaria, è sottovalutato rispetto ai fondamentali tedeschi ed è, quindi, uno dei fattori del successo competitivo della Germania rispetto ai Paesi extraeuropei. Il secondo motivo è che una crisi recessiva dei Paesi europei che assorbono la gran parte delle esportazioni tedesche non è certamente nei suoi interessi.
Per questo forse c’è un modo per convincere la Germania ad accettare gli eurobond: offrirle un nuovo Patto, una nuova Maastricht con la quale si crei quello che Wolfgang Schäuble chiede, ossia una politica economica e finanziaria veramente europea. Decisa a livello europeo.
La mia proposta consiste nel rendere cogente per i Paesi dell’Eurozona il “Semestre europeo”, ovvero il processo annuale attraverso il quale, in Europa, si apre un confronto tra la Commissione, il Consiglio e i Governi nazionali per definire le linee guida comuni volte a orientare i programmi di riforma, i programmi di stabilità o convergenza e le decisioni di finanza pubblica degli Stati. Tale processo, oggi, non è realmente vincolante. Bisogna passare dal semplice coordinamento dei sistemi economici nazionali a decisioni vincolanti per tutti, dalla governance economica attuale al governo economico e finanziario dell’Unione, mettendo questo “strumento” a disposizione di un ministro dell’Economia e delle finanze europeo.
I vantaggi sarebbero molti. Avremmo un governo complessivo dell’economia e della finanze, che guiderebbe il consolidamento fiscale, la crescita economica e le riforme strutturali in chiave europea, e un’elaborazione comune delle politiche per la crescita, con misure europee per progetti continentali di infrastrutture e riforme sul mercato del lavoro.
Le decisioni sarebbero prese a Bruxelles ma sulla base di progetti di bilancio e di piani di riforma e di crescita elaborati a livello nazionale su cui l’Unione darebbe una valutazione di conformità agli obblighi comuni. Le sovranità nazionali sarebbero rispettate perché le scelte verrebbero assunte sulla base di procedure pienamente democratiche, europee, già sperimentate, con le quali viene assicurato il ruolo della Commissione europea quale garante dell’interesse generale dell’Unione.
Gli eurobond giocherebbero un ruolo fondamentale in questo processo, perché l’esclusione dalle obbligazioni comuni europee, per i Paesi che non rispettano i vincoli imposti da Bruxelles, rappresenterebbe un deterrente molto più forte per gli Stati rispetto ai meccanismi sanzionatori finora in atto, che non hanno mai veramente funzionato. In questo modo la Germania potrebbe essere soddisfatta: in cambio degli eurobond si vedrebbe garantita la coerenza delle politiche economiche e finanziarie dei Paesi membri.
È vero, com’è stato detto, che mettere insieme i debiti non serve a farli sparire. Ma mettere insieme le politiche finanziarie li rende sostenibili e facilita il percorso di risanamento. Certo, politiche finanziarie comuni richiedono una modifica dei Trattati. Ma questa sarebbe l’occasione per porre basi giuridiche, oltre che per una politica finanziaria comune, anche per una politica del welfare veramente europea. Non si può realizzare il risanamento delle finanze pubbliche senza regole comuni in questo ambito.
E se gli eurobond esigono una modifica del Trattato, nel breve termine per sostenere crescita e competitività si potrebbe pensare a degli strumenti per finanziare iniziative comuni attingendo risorse dal mercato dei capitali. Su questo punto non mancano né la base giuridica, né i precedenti. L’Unione Europea potrebbe procedere, infatti, attraverso una riedizione dello sportello Ortoli e nuove forme di cooperazione con la Banca europea degli investimenti.
Muovendosi su queste due linee d’azione, il quadro europeo non solo sarebbe salvaguardato, ma ne uscirebbe ulteriormente rafforzato. Si realizzerebbe quel salto di qualità di cui l’Unione Europea ha più che mai bisogno.
Una Maastricht per l’eurobond
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