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Un primo passo che ci rafforza

Il nuovo Trattato fiscale varato ieri al Consiglio Ue contiene le regole restrittive destinate a pesare sull’Italia più che su qualunque altro Paese, ma senza i temuti fanatismi sanzionatori. Come era già previsto negli accordi del marzo 2011, Roma dovrà tagliare ogni anno di un ventesimo l’alto debito pubblico eccedente il 60% del Pil.
Le attenuazioni della regola sono un po’ nascoste nel richiamo a norme precedenti che, se ben interpretate, contemplano circostanze di deroga. Quella più sensata è indicata in un paragrafo dello stesso testo discusso ieri e si riferisce a recessioni gravi, come quella in corso. Il Trattato, d’altronde, entrerà in vigore dal prossimo anno. Per fortuna, non da subito. L’Italia dunque ha tempo dodici mesi per uscire, oltre che dalla recessione, dalla condizione di bassa crescita che renderebbe insostenibile un taglio del 3% ogni anno del debito pubblico. Solo un tasso di sviluppo stabilmente elevato è compatibile con la permanenza nell’area euro.
Per compensare la restrizione di bilancio, l’Unione europea ha annunciato ieri vari orientamenti e iniziative che, come talvolta accade, sembrano rivolte più alla platea che alla storia. È importante l’utilizzo più efficiente e rapido dei fondi strutturali, quei fondi che il bilancio europeo custodisce e concede alle regioni più povere per ridurre il divario di reddito ed opportunità. Ma le politiche di spesa hanno spesso risultati rinviati: ci vogliono piani, autorizzazioni e realizzazioni. Quindi non sarà facile trarne profitto entro i prossimi fatidici dodici mesi.
Nel frattempo sugli italiani pesa un costo del denaro troppo elevato. I tassi restano alti anche se il Paese si è salvato da una deriva in base alla quale lo spread seguiva esattamente il taglio del debito greco per gli investitori privati: era di 200 punti quando agli investitori si voleva imporre un taglio del 20% sui bond greci (il calcolo era basato su una probabilità annua del 10% che l’Italia seguisse la Grecia nel default con analoghe modalità) ed era salito a 500 punti quando la tosatura era del 50%. È notevole quindi che ora lo spread invece di essere a 700-750 punti sia attorno ai 400. Significa che la politica di rigore del Governo si sta in un certo senso ripagando. Ed è probabile che la garanzia futura di stabilità fiscale imposta ieri dal Consiglio Ue dia un altro contributo in tal senso.
Ma anche nella migliore delle ipotesi, con uno spread ben sotto i 400 punti, i costi per le famiglie e le imprese italiane restano ancora troppo elevati, perché si sommano due gravami: i tagli fiscali e gli alti costi del denaro. Il paradosso nell’area dell’euro è infatti che i Paesi costretti a maggiore restrizione fiscale sono anche quelli che hanno le condizioni monetarie più onerose. Una doppia zavorra che va contro l’idea di mercato unico e che rappresenta un rischio per tutti, perché il pericolo maggiore per la tenuta dell’eurozona è che il rigore fiscale si avviti in una spirale di deflazione e debito in Italia e Spagna.
Come si capisce, è un problema la cui soluzione è interesse di tutta l’area dell’euro. La grande immissione di liquidità della Bce a dicembre almeno ha creato condizioni uniformi di finanziamento per oltre 500 banche di tutti i 17 paesi, ma il mercato finanziario europeo è ormai così segmentato che il mercato interbancario non funziona, gli effetti sui prestiti alla periferia e sulla crescita reale non si vedono ancora e imprese e cittadini italiani continuano a pagare il doppio o il triplo dei tedeschi.
Come fare? Il bivio è sempre il solito: da un lato c’è la Bce che invece di comprare timidamente titoli può fissare un tetto agli spread con l’obiettivo di normalizzare i meccanismi di trasmissione della politica monetaria; dall’altro lato ci sono i Governi, che possono anticipare l’annuncio (e i tempi, visto che ora si attende che Merkel torni dalla sua missione in Cina con un po’ di soldi) della dotazione del fondo salva-Stati – l’Esm finalmente approvato ieri – e rendere più concreta la prospettiva dell’unione fiscale almeno coordinando l’emissione di titoli pubblici, in modo da far vedere anche ai mercati che all’orizzonte quella lucina che si vede è un’alba e non un tramonto.

Fonte: Sole 24 Ore del 31 gennaio 2012

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