• lunedì , 25 Novembre 2024

Un pieno più caro per fare la guerra

Se i cittadini fossero in grado di valutare i costi finanziari delle missioni forse ci sarebbe una presa di coscienza.
Aumentare il prezzo della benzina per poter bombardare la Libia? L’idea si è materializzata per un momento nei giorni caldi della decisione del governo italiano di rivedere l’impegno militare in libia e di consentire anche ai nostri aerei di poter sganciare qualche bomba in Libia (ma solo su bersagli militari). Era senz’altro una provocazione, attribuita al ministro Tremonti come reazione ai costi supplementari impliciti in un impegno militare che non era gradito dalla Lega di Bossi. Quest’ultima, infatti, si è subito dichiarata contraria all’ipotesi di bombardamento,non già per spirito umanitario, ma al contrario per paura di dover ospitare migliaia di profughi sospinti dalla Libia verso le nostre coste!
Ma l’idea di mettere una tassa (sulla benzina o su altro) in caso di spese origi­nate dalla decisione di impegnarsi in una guerra in un altro paese è poi così astrusa? Certo, la cosa migliore sarebbe che non ci fossero né guerre né tasse per finanziarle, posto che a nessuno piace pagare più tas­se e tanto meno fare una guerra. Tuttavia, una simile decisione era già stata presa da un governo italiano, all’epoca del nostro impegno sia in Libano che nel Kosovo, sempre sotto l’egida dell’Onu (per non parlare dell’esperienza analoga per la guerra dell’Etiopia nel 1935). D’altra par­te, se un paese vuole prendere la decisione di scendere in guerra, non sarebbe male se chiamasse i suoi cittadini a pagarne le spe­se. Essi ne potrebbero così valutare in mo­do trasparente i costi finanziari, visto che quelli umani sono ormai a carico solo dei professionisti, oltre che ovviamente delle popolazioni dove si svolge la guerra.
In effetti, nel passato un forte deterren­te a scendere in guerra era, tra gli altri, il contributo di vite che la popolazione del paese dichiarante era chiamata a pagare attraverso la coscrizione obbligatoria. La grande ribellione giovanile degli anni Ses­santa negli Usa contro la guerra nel Viet­nam originava anche dal rischio che mol­ti giovani correvano nell’essere costretti a parteciparvi come militari di leva. Ce lo te­stimonia, fra le altre cose, un famoso mu­sical poi diventato film, come “Hair”, che fece epoca, dove si narra di un povero co­scritto che, alla vigilia di essere arruolato per partire per il Vietnam, prende coscien­za degli orrori della guerra grazie a una banda di giovani hippie.
Oggi, con la soppressione del servizio militare obbligatorio, la guerra è affare es­senzialmente di professionisti. Volontari e militari di professione che decidono di partecipare perché fa parte delle loro scel­te di vita, fatte indipendentemente dal­l’evento bellico specifico a cui sono chia­mati a partecipare. E’ così che la resisten­za popolare alla guerra si è attenuata e i governi dei nostri paesi hanno potuto di­chiarare guerre o interventi militari aven­do come opposizione solo quella dei paci­fisti. Se almeno, anche per questioni di tra­sparenza, la popolazione fosse costretta a mettere mano al portafoglio quando un governo decidesse di scendere in guerra, forse ci sarebbe una maggiore presa di co­scienza e qualche reazione in più. E forse qualche guerra sarebbe stata evitata, con vantaggi sia sul piano umanitario che economico. Se, ad esempio, agli america­ni fosse stata fatta pagare una tassa per fi­nanziare le guerre dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, decise da George W. Bush dopo l’orribile attentato dell’11 settembre 2001, oggi non avremmo questa situa­zione di pantano bellico in quei paesi. E non avremmo avuto neppure questa grande crisi finanziaria da cui stentiamo di uscire.
La crisi finanziaria globale affonda in­fatti le sue radici nella politica fiscale e monetaria estremamente espansiva av­viata negli Usa dopo l’11 settembre 2001, per evitare una depressione e per finan­ziare le spese militari delle guerre avvia­te. Questa politica ha squilibrato i conti degli Usa, ossia del più grande paese in­dustriale del mondo, e ha inondato i mer­cati mondiali di liquidità. Essa, alla fine, ha così favorito la nascita di nuovi stru­menti finanziari e ha generato bolle spe­culative, la cui esplosione ha poi provo­cato la grande crisi globale.

Fonte: Espresso del 6 maggio 2011

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