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Un paso doble sull’euro

Nella prima parte del 2011 la crisi dell’euro sarà un tango ben poco aggraziato tra mercati dal passo troppo rapido e politica dal passo troppo lento.
Le pupille degli investitori sono puntate sulle emissioni di titoli pubblici dei paesi periferici e sulle prossime decisioni delle agenzie di rating sulla qualità del debito di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda la cui condizione – a differenza di quella italiana – è sotto osservazione con previsioni negative. Ne risulterà un flusso di notizie quotidiano impressionistico e talvolta bizzarro (un esempio? Il downgrading di cinque livelli della Grecia da un anno fa quando era davvero al collasso) che andrà a piovere su investitori il cui grado di eccitabilità è psicotico. Tra agenzie di rating a cui dovrebbe essere tolto ogni ruolo istituzionale, e “guru” di mercato che dichiarano un giorno sì e uno anche che l’euro è morto (a beneficio dei propri interessi) il flusso di informazioni crea uno stato di epilessia permanente.
Lo si è visto anche in occasione dell’ultima asta portoghese. Per il fatto che l’asta non abbia superato la soglia di rendimenti al 7% (arrivando al 6,73%), i mercati hanno reagito con entusiasmo tale da far pensare che la guerra fosse finita. In effetti il magico 7% è stato il segnale d’allarme in occasione del ricorso di Grecia e Irlanda all’aiuto di Ue e Fmi, ma non ha alcun significato macroeconomico generale. Un indicatore dell’Ifo di Monaco sulla frontiera della solvibilità dei paesi euro calcola che con tassi sopra il 6% il Portogallo ha bisogno di una crescita del 3.3% per non rischiare l’insolvenza. Meglio di Grecia e Irlanda che dovrebbero crescere del 20% e dell’8% per sostenere i tassi attuali (12% e 7,5%), ma pur sempre un’ipotesi che Lisbona non può realizzare nel giro di poche settimane sotto l’esigenza di acquietare i mercati finanziari. Ci vogliono governi coraggiosi, decisioni parlamentari rapide e capacità di coinvolgimento dell’opinione pubblica nelle riforme. Si può (si deve) fare, ma ci vuole tempo e, guardando alla situazione politica di Lisbona, anche un po’ di fede.
A quietare il passo frenetico dei mercati servirebbe una politica europea dinamica. Per ora invece c’è soprattutto la Banca centrale europea che sta assorbendo una quota di titoli di Grecia, Irlanda e Portogallo ormai tale da costringerla ad accumularne ancora per non subire perdite. Alla fine, senza una risposta politica europea tempestiva, alla Bce toccherà assorbirli tutti e smaltirli a tempo …debito.
La risposta istituzionale in effetti è in cantiere: i ministri finanziari Ue discuteranno il 17-18 gennaio come ampliare il fondo di stabilizzazione (l’Efsf che vivrà fino al 2013) e di quanto. Un pre-accordo verrà comunicato dal Consiglio Ue del 4 febbraio e se tutto va bene la decisione verrà presa al Coniglio successivo del 25 marzo. Si spera che si chiarisca per esempio se il fondo possa servire anche alla ricapitalizzazione delle banche o se i tassi imposti alla Grecia possano essere abbassati. Ma sarà difficile sapere che cosa succederà al meccanismo di stabilità (Esm) che prenderà il posto del Fondo dopo il 2013.
Agli investitori serve capire al più presto se l’Esm potrà autofinanziarsi, quali saranno le regole in caso di ristrutturazione del debito, o se lo status di creditore dell’Esm sarà privilegiato, in tal caso lasciando l’intero costo delle eventuali ristrutturazioni sulle spalle dei creditori privati. Infine bisogna trovare un sistema di distribuzione degli oneri tra i paesi creditori della zona euro, un intervento che anch’esso potrebbe richiedere una modifica del Trattato. E tutto ciò riguarda solo la parte finanziaria degli interventi, perché ad essa vanno poi associati i provvedimenti più politici che rendano credibile la tenuta futura della zona euro: in primo luogo il perfezionamento del nuovo Patto di stabilità.
Non c’è ragione tuttavia perché questo percorso – certamente complesso – non possa essere completato in tre mesi. Se non fosse per alcune non trascurabili compatibilità che ingombrano la strada di tutti i governi e in particolare – è necessario dirlo? – di quello tedesco. Come nel 2010, anche nei prossimi dodici mesi tutta Europa vivrà aggrappata all’equilibrio d’alta quota tra il governo di Berlino, la Corte costituzionale e il voto nei länder. Il timore della sentenza della Corte sul salvataggio dell’Irlanda spingerà il governo a pretendere che i crediti privati perdano valore nella ristrutturazione dei debiti, cosicché l’intervento non appaia un salvataggio tra Stati. La campagna nei länder spingerà invece il governo a chiedere sanzioni più severe e più automatiche per il Patto di stabilità. Il ministro Schäuble, ne ha dato un assaggio accusando l’ex governo socialdemocratico di aver contribuito alla crisi ammorbidendo il Patto nel 2005. È probabile quindi che il Fondo di stabilizzazione venga rafforzato più di nome che di fatto – aumentando solo la quota dei fondi mobilitabili – e che il dibattito del 2011 ruoterà sulle regole severe del coordinamento fiscale. In un anno in cui molti paesi sono già chiamati a correzioni di bilancio imponenti e in cui ogni giorno attorno ai mercati i profeti dell’apocalisse si rincorrono per ritagliare già in questo mondo le proprie ricche ricompense, varrebbe la pena di avanzare senza infingimenti. Senza nascondere che il percorso fatto finora dall’Europa verso l’integrazione è molto più di quanto si credesse possibile solo un anno fa.

Fonte: Sole 24 Ore del 15 gennaio 2011

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