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Un parallelo inquietante con mille altre storie italiane

Un disastro previsto, emblematico del declino italiano. Nell’ormai prossima fine di Alitalia – annunciata dallo stesso Cimoli con la desolante constatazione “più voliamo, più perdiamo”, e dal sostanziale commissariamento del vertice della società da parte del Governo – c’è qualcosa insieme di esemplare e di tragico, un frammento della storia recente del nostro Paese e di quello che lo aspetta. L’Alitalia si trovava già in difficoltà prima del 2001, come del resto tante altre compagnie aeree che dovevano fare i conti con la concorrenza del low cost, il caro-carburante e l’invecchiamento progressivo delle flotte. A ciò bisognava aggiungere la caratteristica tutta italiana di una rappresentanza sindacale frastagliata e irresponsabile, che non aveva alcuna intenzione di adeguarsi agli standard di efficienza e salariali europei. Poi è arrivato l’11 settembre, e nel trasporto aereo è cambiato tutto: a parte la BA che si era già riconvertita, di fronte al crollo dei margini c’è chi, come Swissair e Iberia, ha avviato dolorosi processi di ristrutturazione, chi come Air France e Klm si è fuso, e chi ha chiuso. Alitalia, invece, ha scelto di non scegliere, varando piani di ristrutturazione assolutamente inadeguati. E a pagare sono stati gli azionisti: prima dell’ultima ricapitalizzazione, il suo valore di Borsa si era ridotto del 90% in venti anni. Negli ultimi 14 esercizi, poi, c’è stato un solo utile gestionale (nel 1998, ma ante-imposte, ovviamente), e con i vari aumenti di capitale ha assorbito liquidità per 4,15 miliardi di euro, più di due terzi dei quali sottoscritti dallo Stato. Fino all’ammissione choc di Cimoli: così Alitalia non sopravvive. Sia chiaro: è difficile assolvere il management, visto la blanda riduzione dei costi, il mancato sviluppo dei ricavi, decisioni strategiche tutte da discutere (entro novembre la riduzione da 7 a 5 dei voli verso un mercato su cui puntare come la Cina), ma soprattutto la mancata capacità di mettere l’azionista Tesoro con le spalle al muro nell’assunzione delle sue responsabilità. Tuttavia, si tratta di peccati veniali, se comparati con quelli commessi dai governi e dai sindacati. Questi ultimi hanno reso ingovernabile l’organizzazione del lavoro. E ne sono coinvolti anche i confederali, che via via hanno estremizzato le loro posizioni per paura di farsi scavalcare dalle rappresentanze autonome super-corporative e perdere consenso tra i lavoratori. Ma la responsabilità primaria è della politica, che ha garantito la sopravvivenza di Alitalia a suon di sussidi senza mai mettere mano al piano industriale, e nello stesso tempo – in nome del “federalismo aeroportuale” – ha consentito un proliferare di scali e il raddoppio degli hub che hanno oggettivamente messo in difficoltà l’azienda.
Un susseguirsi di vertici manageriali non tutti all’altezza, sindacati irresponsabili, un ceto politico incapace di fare ragionamenti strategici: non ci vedete anche voi un parallelo inquietante con altre mille storie italiane?

Fonte: Il Messaggero del 9 ottobre 2006

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