Il rinvio della formalizzazione del secondo prestito alla Grecia, deciso dall’Eurogruppo, mantiene sui mercati tutta l’incertezza che da Atene ormai da anni si dirama nel resto dell’area euro.
Il tiro alla fune tra Atene e i partner finisce per penalizzare paesi come l’Italia che hanno avviato gli aggiustamenti e che hanno bisogno di minore ansietà sui mercati e di un calo degli spread.
Un eventuale rinvio del prestito a dopo le elezioni greche di aprile, significherebbe creare insicurezza nel momento più delicato per il rinnovo delle aste dei titoli italiani.
A due mesi dall’appuntamento elettorale, condizionare il prestito europeo al risultato del voto significa chiedere agli elettori greci di sottoscrivere un programma di austerità o portarne le conseguenze. È un modo piuttosto ruvido di sfruttare i rapporti di forza nella zona grigia tra democrazia nazionale e politica europea. Sarebbe forse più ragionevole, anzichè interferire di nascosto sulla democrazia greca, chiedere esplicitamente che i partiti maggiori formino una grande coalizione dietro l’attuale primo ministro tecnico Lucas Papademos, come ha chiesto ieri il ministro tedesco Wolfgang Schäuble, suscitando le solite ire dei politici ateniesi.
Le ipotesi di rinvio del prestito o di una sua suddivisione in tranches – una prima immediata eviterebbe il default in vista dei bond da rinnovare tra un mese – è il sintomo della sfiducia nei confronti della politica ateniese. Un ministro delle Finanze dell’Eurogruppo ha spiegato martedì a Washington per esempio che tra le condizioni poste ad Atene c’è l’invio di alti funzionari stranieri in ogni ministero greco. Il ministro delle Finanze Venizelos ha avvertito l’opinione pubblica che in Europa esiste una corrente di paesi favorevole all’esclusione della Grecia dall’euro. I due maggiori partiti, Pasok e Nea Demokratia, hanno preso atto del rischio e hanno assunto nuovi impegni di austerità.
Alla fine anche il conservatore Antonis Samaras si è impegnato, come già George Papandreou, a rispettare i piani di riforma concordati con i partner europei di cui era fortemente critico fino a domenica scorsa. I due leader hanno inviato lettere di impegno alle istituzioni rappresentate nella troika (Fondo monetario e istituzioni europee), ma non sono riusciti a farlo insieme, dando un segnale meno robusto di quanto fosse desiderabile.
Le lettere inviate da Atene sono infarcite da avverbi, ma gli impegni confermati da Samaras e Papandreou sono rilevanti. Tra questi ci si aspetta una riforma delle pensioni importante in un risanamento di questo tipo: incide più sul reddito futuro che su quello presente e dà maggiore certezza di stabilità ai conti pubblici in prospettiva. È probabile tuttavia che la decisione dell’Eurogruppo, lasciando il destino della Grecia in sospeso, sia vissuta dai mercati come una conferma dello scetticismo sulla stabilità dell’euro area.
L’inaffidabilità dei partiti è d’altronde più difficile da contrastare sapendo che la ricetta di politica economica applicata dalla troika nei confronti della Grecia finora non ha rispettato le attese, come dimostra il peggioramento della recessione. Il pil greco è sceso del 7% nel 2011, quando nei piani originari avrebbe dovuto tornare a crescere. Ma prima di togliere speranze ai cittadini greci, vale la pena di vedere le cifre che il premier Lucas Papademos ha presentato al Consiglio europeo solo due settimane fa.
Tra il 2010 e il 2011 la Grecia ha recuperato oltre il 50% della competitività persa nei dieci anni precedenti. Il deficit con l’estero è sceso dal 15% del 2008 al 9,4% nel 2011. La bilancia con l’estero è in pareggio se non si considera l’import di petrolio e gli interessi sul debito greco in mano ai creditori stranieri. I dati Eurostat utilizzati dalla troika dimostrano che nonostante la terribile recessione, il disavanzo pubblico è stato ridotto del 6,5% dal 2009, essendo sceso dal 15,8% al 9,3% dello scorso anno. Il deficit primario è sceso dal 10,4% al 2,4% in soli due anni. Un surplus primario dovrebbe essere a portata di mano nel 2013.
E’abbastanza chiaro che i creditori dovranno rinunciare agli interessi sui prestiti se non vogliono far fallire Atene. In tali condizioni, sarebbe un’interferenza impropria da parte dei paesi partner suggerire che Atene adotti una Grande Coalizione o un governo tecnico? Forse sì, ma non è in fondo esattamente quello che è successo nei mesi scorsi?
Quanto alla ferita democratica dobbiamo forse abituarci a ragionare in termini diversi. Come è avvenuto all’inizio con il premier italiano, anche Papademos è stato classificato come un “tecnico”, con una sfumatura diminutiva. È probabile invece che come con Mario Monti ci troviamo di fronte a un’evoluzione della figura politica che matura la propria esperienza in un ambito non nazionale, ma europeo. E che si trova così in grado di conciliare le prerogative nazionali con le compatibilità europee. In assenza di una più vasta maturazione politica nazionale, si tratta di figure indispensabili. Almeno fino a quando l’elaborazione parlamentare nazionale e quella europea non diventeranno parte di un unico processo democratico in una vera federazione politica.
Un inutile tiro alla fune
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