di Franco Debenedetti
La bad bank da tempo tiene il campo, da qualche giorno occupa le prime pagine dei giornali. Ma non è il solo strumento per affrontare la crisi delle sofferenze bancarie italiane. Qui vogliamo presentare un contributo complementare al dibattito: una soluzione nuova, perché possibile solo dal 1 gennaio 2016, con l’introduzione della Brrd (Direttiva bancaria di rimedi e risoluzione); di mercato, perché non ha bisogno di aiuti di Stato; equa, perché rispetta i diritti degli investitori. Ma che va a toccare la governance, cioè la questione che attraversa il nostro sistema bancario dalla sua privatizzazione: e questo farà discutere.
Prima di tutto, definiamo il problema: i crediti deteriorati (sofferenze più incagli) assorbono capitale e ostacolano il credito; pesavano sui bilanci delle banche Italiane per oltre 350 mld a fine 2014 e rischiano di essere circa il 10% in più alla chiusura dei conti 2015. Di questi, oltre 200 mld è costituito da sofferenze, con basse probabilità di recupero. La percentuale di copertura nei bilanci 2014 era del 44,4% in media, del 58,7% per le sole sofferenze. Questo a fronte di una copertura che dovrebbe essere del 82,4% , secondo il criterio del Decreto SalvaBanche, o del 90%, riscontrato nelle più recenti operazioni di mercato. Questo gap di valutazione, applicato allo stock di Npl (non performing loans) del sistema, crea una carenza di copertura che va da circa 54 miliardi di euro per le sole sofferenza a oltre 130 miliardi per la totalità dei crediti deteriorati. Questo gap restringe l’orizzonte del credito a famiglie e imprese, ancor più con l’accorciamento della maturità media della raccolta bancaria, che si sta spostando dalle obbligazioni (17,9%, in forte decrescita) ai depositi (59,2%, tuttora in aumento). Mentre il contesto normativo italiano, la lunga crisi e la debolezza della ripresa, cioè proprio le cause all’origine del problema, impediscono che decolli il mercato dei Npl, rendendo difficile liberare i bilanci bancari da quel peso.
La via che si è finora cercato di seguire è quella della bad bank, in cui spostare la parte dei Npl eccedente i valori fisiologici fatti registrare prima della crisi. Spostare a che valore? Quello di mercato non è sostenibile dai bilanci delle banche; quello di libro, con la differenza pagata o garantita dallo Stato, sarebbe per Bruxelles un aiuto vietato e una distorsione della concorrenza. È peraltro improbabile puntare a “garanzie pubbliche a condizioni di mercato” se il mercato delle garanzie, appunto, non c’è. E qui la discussione si è incagliata.
La soluzione alternativa che proponiamo usa gli specifici strumenti di recovery plan e di intervento precoce offerti dalla Brrd per prevenire l’aggravarsi delle crisi e per evitare i traumi del bail-in. Lo schema prevede due passaggi, entrambi da attuarsi in accordo con l’Autorità di Risoluzione:
– fissare un obiettivo di copertura dei crediti in sofferenza in linea col mercato.
– deliberare, per coprire la conseguente perdita prevista nel bilancio, un adeguato aumento di capitale, e, per l’eventuale inoptato, la conversione prima di tutto delle obbligazioni subordinate, e, ove non bastasse, di parte delle obbligazioni senior, con rapporti di concambio incentivanti, legati a possibili clausole di lock-up.
Lo stock delle obbligazioni nel passivo delle banche (367 miliardi, di cui oltre 70 miliardi costituito da subordinate) appare complessivamente (anche se con forti differenze tra banca e banca) capiente rispetto alle necessità; rispetto alla media europea è un valore alto, anche se la sua incidenza sul totale del passivo è fortemente diminuita negli ultimi anni (ora rappresentano il 77% del capitale e riserve, contro il 316% del 2006; rispetto al totale del passivo, sono passate dal 19,7% del 2009 al 10,7% del 2015).
Ricorrere alla conversione delle obbligazioni in capitale permette di rispondere ai vincoli europei senza far correre ai risparmiatori il rischio di incorrere in perdite immediate e definitive, “comprando tempo” tramite una ristrutturazione patrimoniale non traumatica. Le obbligazioni subordinate sono già oggi considerate assimilabili a forme di capitale. Anche gli obbligazionisti sono esposti a perdite in conto capitale, in caso di risoluzione, o in conto interessi, in caso di cancellazione delle cedole. È interesse anche loro rafforzare i bilanci delle banche liberandoli da un peso che ne ostacola la crescita e ne riduce la redditività.
Per gli attuali azionisti questo comporta naturalmente una diluizione: le quote di controllo diventano più contendibili e appetibili per eventuali compratori o per progetti di consolidamento. Nelle banche in cui le fondazioni bancarie concorrono al controllo, la loro quota verrebbe probabilmente diluita; in altre verrebbero sicuramente ridotte le influenze politiche nella gestione. Ma è per le banche medio-piccole, radicate sul territorio, che lo schema appare più interessante: si favoriscono le aggregazioni, offrendo ai clienti tradizionali l’opportunità di convertire il debito obbligazionario in capitale a condizioni trasparenti, puntando a nuove risorse patrimoniali che sappiano attendere il tempo necessario a un risanamento ordinato del proprio istituto di fiducia.
Un “grande swap” per guadagnare tempo, questo il senso della proposta. Tempo che lo Stato dovrebbe impiegare per impegnarsi in un grande sforzo volto a snellire i processi burocratici e legali che rallentano la gestione dei crediti deteriorati e l’escussione delle garanzie, a completamento del disegno di riforma già avviato lo scorso anno. Si può chiedere ai risparmiatori italiani di investire in “capitale paziente”, ma a solo fronte di un “governo impaziente” di fare le riforme necessarie.
Fonte: IL SOLE 24 ORE, 21 Gennaio 2016