• venerdì , 22 Novembre 2024

Un Governatore in Procura

Un regista no, ma certo è stato un ostinato dirigista. E’ questo il capo di imputazione nei confronti di Antonio Fazio? Ascoltiamo le parole della pubblica accusa: “Non dico sia stato il regista, ma senza di lui non ci sarebbe stata l’estate delle scalate bancarie”, accusa il pm di Milano Eugenio Fusco. E chiede tre anni di reclusione per l’ex governatore della Banca d’Italia, più una multa di centomila euro. Insiste, insieme al collega Gaetano Ruta: “Il progetto rientra in una logica del riassetto del sistema bancario italiano secondo il dirigismo di Fazio”. Ma siamo nelle aule grigie (non sorde perché le loro mura hanno molti orecchi) del palazzaccio, davanti a una corte penale, o all’annuale forum di Davos? Quanto a Francesco Frasca, il capo della vigilanza, “è una persona onesta, ma il suo contributo morale è stato provato”. Morale, appunto. Non vogliamo qui ricostruire in dettaglio le scalate del 2005, tanto meno il processo in corso. Che ci sia stato imbroglio da parte di Gianpiero Fiorani nel tentativo di acquisire Antonventa, è ormai acclarato. E sembra difficile sostenere che la presa di Unipol su BNL avesse basi finanziarie sufficientemente solide. Ma gli argomenti dei pubblici ministeri sollevano un dubbio di fondo: se alla sbarra viene portata una filosofia e una intera linea di condotta del banchiere centrale, allora l’analisi e il giudizio richiedono quanto meno uno sguardo lungo e completo.
L’operato di Fazio come governatore della Banca d’Italia si divide almeno in tre fasi: c’è l’innovatore della politica monetaria e l’inflation killer, il rifomatore bancario fino al 2000, lo stabilizzatore subito dopo. E vanno viste nel loro insieme.
1) Il contributo determinante al risanamento dell’economia nessuno lo mette in dubbio. Fazio arriva dopo una vera catastrofe monetaria, come il collasso della lira che ha prosciugato le riserve della banca centrale. E mentre sta crollando l’intero sistema politico. Michele Fratianni e Franco Spinelli, nella loro storia monetaria d’Italia, scrivono che il nuovo governatore impiega un paio d’anni per prendere le misure. La svolta avviene nel 1995. I due studiosi lo chiamano “il secondo Fazio” e sostengono che si riaggancia direttamente a Paolo Baffi: mentre questi aveva innovato sul piano teorico, Fazio cambia la prassi. Le novità principali sono l’obiettivo di inflazione dichiarato e programmato che diventa punto di riferimento dell’intera politica economica. La dinamica dei prezzi scende in un anno dal 4 al 2 per cento, i tassi di interesse a lungo termine calano e con essi il tasso di sconto. La politica monetaria italiana si allinea a quella del binomio franco-tedesco, si riduce il debito pubblico creando la premessa per entrare nell’euro.
In una intervista al Corriere della Sera nel 1999, Jean-Claude Trichet, allora capo della Banca di Francia, loda l’europeismo di Fazio. Alla sorpresa del giornalista che ricorda tutti i dubbi sull’ingresso della lira nell’euro, Trichet replica che il governatore italiano conosce bene i limiti strutturali del suo paese ed è giustamente preoccupato, ma porta il merito di aver agganciato la moneta unica. Nel 1996 Euromoney lo aveva proclamato banchiere centrale dell’anno e nell’occasione Fazio aveva ricordato che “la stabilità è nel codice genetico” del suo mestiere. Ecco il mantra che ha guidato le sue scelte. Molti ricordano l’ economista, l’allievo di Paul Samuelson e di Modigliani sotto la cui guida ha elaborato il modello econometrico della Banca d’Italia. Un post keynesiano, dunque, non un seguace di Milton Friedman. Semmai più vicino all’economia sociale di mercato accolta dalla Chiesa nella sua dottrina sociale. Ma un uomo che ha saputo cambiare la politica monetaria.
2) La foresta pietrificata: così veniva definito il mondo del credito, con tutte le principali banche in mano allo stato direttamente o indirettamente attraverso l’Iri. Immobili, non stabili. Inefficienti, poco produttive, con alti costi per i clienti ai quali vengono offerti scarsi servizi. La prima scossa arriva dalla legge Amato del 1990. Un liberista direbbe che si poteva fare di più per liberarsi del dirigismo e della cultura pubblicistica. Perché gli istituti pubblici trasformati in spa, passano nelle mani delle Fondazioni. Quindi non sono meno contendibili. Ma c’era davvero qualcuno tra i grandi capitalisti in grado di impiegare una montagna di quattrini per possedere la Commerciale, il Credito italiano, la Banca di Roma, il San Paolo di Torino? Basta vedere come è stata privatizzata Telecom Italia con un “nocciolino duro” di imprenditori i quali erano in grado di rischiare solo percentuali risibili del proprio capitale.
L’obiezione non fa una grinza, tuttavia il modello Amato, confermato poi da Ciampi, ha creato degli ircocervi condizionati a loro volta dalla politica: fatta uscire dalla finestra nazionale, è rientrata dalle finestre locali. Consapevoli che le banche italiane sono dei nani rispetto ai colossi mondiali, viene introdotta la prassi di limitare al 15 per cento il pacchetto azionario in mano straniera. L’obiettivo è impedire la caccia al risparmio nazionale, mediamente più elevato rispetto a quello di altri paesi. Preoccupazione diffusa. Dice Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Associazione casse di risparmio nel gennaio 2006: “Può darsi che l’ex governatore si sia lasciato fuorviare. Il punto, però, rimane. In un contesto europeo ancora molto disomogeneo, l’Italia non può scegliere sempre di aspettare o chiamare gli stranieri”. In un incontro internazionale presso la futura Bce, nel 1999, Fazio sottolinea che persino negli Stati Uniti le scalate ostili alle banche sono un’eccezione. Non parliamo della Germania o della Francia. E’ un anno importante e un argomento sensibile, perché in quel momento si preparano in Italia due opa (offerte pubbliche di acquisto) ostili: il Credito Italiano vuole la Banca Commerciale e il San Paolo il Banco di Roma. Fazio è contrario e con lui si schiera Enrico Cuccia. Sul piano politico, troveranno il sostegno di Massimo D’Alema, presidente del Consiglio.
Pur con tutti i suoi limiti, la foresta si muove: circa la metà del mercato creditizio viene interessata da fusioni, cambi di proprietà, acquisizioni, il numero delle banche scende da 1.100 del 1993 a 750 del 2005. Nel frattempo, la dimensione delle aziende cresce e così la loro produttività. Ma la concentrazione ha anche migliorato la concorrenza. Un modo per calcolarlo è considerare il divario tra tassi attivi e passivi. Ebbene dai primi anni ’90, la forbice si è ridotta ed è diminuita anche la distanza tra nord e sud. Sono nati istituti come Unicredit e Intesa Sanpaolo in grado di competere per taglia con le grandi banche europee. Nello stesso tempo, è andato avanti un rafforzamento sul piano locale. Ecco, questo è l’altro mantra che Fazio non smette mai di recitare: il legame con il territorio, premessa per un collegamento stretto con i bisogni dell’economia reale.

Il governatore non ama la finanziarizzazione in sé e per sé, su questo ripete quel che già diceva Guido Carli quando nel 1987 denunciava “il disordine nel tempio della finanza mondiale”. Argomenti sollevati in più occasioni già nel 2001 durante un seminario ristretto tenuto in via Nazionale da Roger Ferguson numero due della Federal Reserve allora presieduta da Alan Greenspan: l’eccessivo ricorso ai derivati, i rischi che i nuovi strumenti sfuggano al controllo, l’esigenza di “un’ancora” nella forma di una banca centrale mondiale. Se prendiamo la situazione prima della grande crisi, vediamo che negli Stati Uniti salvare le banche è costato il tre per cento del prodotto interno lordo, in Svezia il 4,2, in Francia l’1,5, in Italia lo 0,5. Le aziende italiane fanno meno utili e hanno un problema di aumentare la loro base patrimoniale, come ha sottolineato Mario Draghi. In cambio, nessuna è fallita né è stata rinazionalizzata dopo il crack del 2008.
3) Tra il 2000 e il 2001 tutto cambia anche nel piccolo mondo antico della finanza italiana. La morte di Cuccia apre un vuoto nel capitalismo del nord, rimasto senza il suo centauro, un regolatore metà privato e metà pubblico. E Fazio ritiene che l’unico centro di gravità permanente sia ormai Bankitalia. Nemmeno gli equilibri decennali nelle Assicurazioni Generali sono più scontati. Unicredit in mano a Alessandro Profumo e Capitalia in mano a Cesare Geronzi, si disallineano a Mediobanca della quale sono azioniste. Il terremoto costa il posto a Vincenzo Maranghi e apre la stagione di caccia.
Fazio ritiene particolarmente deboli due banche, BNL e Antonveneta e fin dal 2004 spinge per un mutamento di equilibri, come ha spiegato anche ai magistrati. La prima è condizionata da una cattiva gestione da parte dell’azionista di riferimento, il Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, la seconda è dilaniata dal conflitto tra i soci. Ci vuole “un intervento esogeno”, dice via Nazionale. Nel caso Bnl, si fa avanti il Montepaschi, ma l’operazione non va in porto. All’interno si formano due aggregazioni di azionisti quelli legati al patto di sindacato (BBVA, Generali, Della Valle) e gli altri, i contropattisti tra i quali Caltagirone, Lonati, Coppola, Bonsignore, Grazioli. Con loro tratta la Banca Popolare di Verona, ma non riesce a mettersi d’accordo sul prezzo per pochi centesimi. Dunque, sfumano due possibili soggetti esterni. Si presentano, separatamente, anche Unipol e la Popolare di Lodi guidata da Gianpiero Fiorani. Mentre ci sono contatti tra Fazio e Profumo per un intervento di Unicredit. A quel punto, scatta la ops (offerta pubblica di scambio) del BBVA il quale propone di acquisire il controllo non pagando in contanti, ma con propri titoli, carta contro carta come si dice. E qui comincia la bagarre. L’offerta (al prezzo di 2,52 euro per azione) non è tra le più allettanti. Le trattative tra la Popolare di Verona e il contropatto si è arenata su 2,32, ma era un prezzo certo di acquisto, in contanti, l’altro è puramente teorico. Non solo, il BBVA parte chiedendo di acquisire il 50, poi cambia e gli basta il 30 per cento, quota che chiede di mantenere anche se l’ops risultasse alla fine più bassa. A questo punto scatta il gioco delle autorizzazioni che, secondo la pubblica accusa, sarebbe stato sfavorevole agli spagnoli e favorevole a Unipol dove nel frattempo Giovanni Consorte ha intrecciato segretamente i suoi destini con quelli di Fiorani.
Nel 2002 Fazio aveva reso omaggio al rampante banchiere, organizzando proprio a Lodi l’annuale assemblea del Forex e facendosi fotografare a braccetto con lui. Tra i due nasce una simpatia, un’amicizia che Fiorani fa di tutto per alimentare. Quando si apre la crisi dell’Antonveneta, con la disdetta del patto di sindacato, si fa avanti la Popolare di Lodi. Secondo l’accusa è proprio il governatore a spingerla in pista per contrapporsi ad ABN, all’insegna della italianità. La banca olandese era azionista di minoranza in Antonveneta e in Capitalia tanto che era stata adombrata, anche con Bankitalia, la possibilità di una aggregazione a tre. Ipotesi poi sfumata. Il 29 marzo 2005, ABN chiede di comprare in contanti, ma deve essere autorizzata dalla banca centrale. Anche stavolta, la carta bollata diventa, secondo l’accusa, uno strumento discriminatorio usato per dar tempo a Fiorani di organizzare la controffensiva. Il governatore smentisce e ritiene di essere stato imbrogliato dal banchiere che aveva rastrellato segretamente le azioni fino a raggiungere il 52% già nel febbraio aiutato da Gnutti, Coppola, Lonati, e Ricucci il quale ne frattempo si era lanciato in una scalata al Corriere. Scende in campo la magistratura, cominciano le inchieste giudiziarie, viene alla luce la trama truffaldina di Fiorani che usa i peggiori espedienti (compresi i conti di clienti defunti, le anime morte di Lodi). Scoppia anche una tempesta politica con le dimissioni di Domenico Siniscalco da ministro del Tesoro. A luglio, Fazio viene iscritto nel registro degli indagati. Intanto, i quotidiani pubblicano le intercettazioni delle sue conversazioni con Fiorani. Ma alla gogna finisce anche Consorte per la telefonata, pubblicata dal Giornale, con un esultante Piero Fassino: “Abbiamo una banca”. Tutto precipita. A cominciare dall’avventuristico assalto al Corsera. Il governatore si dimette.
E le banche? Il 10 gennaio 2006 Bankitalia blocca l’opa di Unipol su BNL, si fa avanti la francese BNP che si prende tutto quanto. Più tortuoso il percorso di Antonveneta. ABN acquisisce la maggioranza azionaria, ma un anno dopo non regge e la cacciatrice diventa preda di un consorzio composto da Royal Bank of Scotland, Fortis e Banco di Santander. Gli asset vengono divisi e Antonveneta finisce a Santander che se ne disfa vendendola al Montepaschi. Poi scoppia la crisi finanziaria. Fortis crolla, la banca scozzese è salvata dal governo. Gli spagnoli resistono, ma si leccano le ferite. Quel 2005 proietta attorno a sé una sorta di maledizione. Si sentono voci, poi smentite, che anche BNP voglia mollare BNL. In realtà, queste aggregazioni improvvisate non hanno funzionato (se non per gli azionisti forti che hanno intascato un bel po’ di quattrini).
Intanto, il trauma ha cambiato anche la Banca d’Italia. Il governatore ora è a termine (sette anni). La vigilanza, che si è fatta “prudenziale” e non “strutturale”, ma dopo la crisi è tornata “asfissiante” secondo alcuni banchieri privati. Un giudizio che Mario Draghi, impegnato nel rafforzamento delle regole internazionali, ritiene “un complimento”. Nel marzo 2008, la Financial Services Authority, il guardiano britannico dei mercati finanziari, esce con un’autocritica amara sul fallimento della Northern Rock che ha innescato l’effetto domino in Gran Bretagna. All’origine di tutto c’è stata una “inaccettabile mancanza di supervisione e controlli” e il conflitto con la Banca d’Inghilterra. Il business model era noto e considerato pericoloso (reperire fondi solo sui mercati dei capitali anziché con i depositi dei clienti), ma la Fsa non era intervenuta per non abbandonare il proprio ruolo di arbitro non intrusivo.
Dunque, la questione di chi controlla chi (e come), resta aperta e non solo in Italia. Fazio s’è fatto turlupinare o ha violato le leggi? Spetta al giudice deciderlo. I pm dicono che non è stato il regista, ma che era dirigista. Così come lo è stata l’intera politica economica italiana. E come stanno diventando le banche centrali nel mondo intero. E’ giusto, è efficace? Sarebbe ora di un dibattito spregiudicato e libero, fuori dalle aule dei tribunali.

Fonte: Il Foglio del 4 marzo 2011

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