Steve era uno dei più grandi innovatori americani, ha trasformato le nostre vite.Il mondo ha perso un visionario Barack Obama.Della sua malattia disse: «La morte? È la migliore invenzione della vita»
«Sapete perché questi prodotti non si vendono? Perché fanno schifo». Era l’ inizio del 1997 e Steve Jobs era appena tornato alla Apple dopo un «esilio» di 12 anni. Il suo ruolo: consigliere non ufficiale dell’ azienda di Cupertino in crisi di prodotti e vendite che l’ amministratore delegato Gil Amelio aveva cercato di rivitalizzare comprando Next, l’ azienda con cui Jobs era ripartito dopo la sua cacciata. Amelio pensava di aver acquistato idee, brevetti e un superconsulente. Ma appena Steve ricomparve in azienda – in bermuda e infradito come fosse a casa sua – tutti capirono che era tornato il capo. Pochi mesi dopo Amelio si dimise e per Jobs iniziò la seconda, esaltante cavalcata che ha fatto di lui una figura unica nella storia del capitalismo americano. L’ uomo scomparso l’ altra sera a San Francisco dopo aver combattuto dal 2004 una battaglia contro una forma rara di cancro al pancreas, non è stato uno scienziato né un ingegnere. Ha sempre rifiutato l’ etichetta di manager e quella di inventore. Genio (della tecnologia, del design, della comunicazione) è la parola che è stata più usata per descriverlo. Assieme a quella di mago. Un pifferaio magico non sempre benevolo. Febbrile, visionario, spietato. Dotato di una straordinaria capacità di capire i desideri della gente, di anticiparne i bisogni, di sedurla con la sua tecnologia semplice e accattivante, con le linee pulite degli oggetti che ha messo nelle tasche e sulle scrivanie di moltissimi di noi. Ma, più ancora delle sue doti di visionario, il vero talento di Jobs è stato quello della leadership. Rude, scostante, paranoico nel suo perfezionismo, ma capace di vedere in anticipo i nuovi prodotti. Di trasformare un’ idea suggestiva in una tecnologia funzionante, affidabile. Costruita e messa in vendita da una catena produttiva enorme, incredibilmente complessa, che avvolge il mondo intero. Una macchina sulla quale Jobs ha sempre avuto un controllo assoluto, dettando i ritmi e imponendo le sue regole di segretezza. Pochissime le sbavature: e quando si sono verificate sono divenute immediatamente casi mondiali. Vero Thomas Edison dei tempi moderni, con le sue imprese Jobs è andato oltre le realizzazioni di tutti gli altri «grandi» del capitalismo americano: Henry Ford ha rivoluzionato l’ auto, Andrew Carnegie l’ acciaio, John Rockefeller l’ industria petrolifera. Steve Jobs, da quando, nel 1976, fondò con Steve Wozniak la Apple, ha rivoltato con le sue attività quattro settori: la musica, l’ industria del «computing», le telecomunicazioni e la cinematografia digitale (Pixar-Disney). Nell’ ultimo anno e mezzo con l’ iPad, Jobs non solo ha costretto tutta l’ industria delle tecnologie digitali a inseguirlo su un terreno nuovo, ma ha cominciato a modificare i destini del giornalismo, ricreando sul «touch screen» la sensazione della carta da sfogliare e imponendo il passaggio dal «tutto gratis» dei quotidiani online ai «giardini recintati» (e a pagamento) delle sue applicazioni. Gli editori l’ hanno salutato come un salvatore, salvo scoprire poi che Steve voleva sì la sopravvivenza della carta stampata, ma senza rinunciare a massimizzare la redditività delle sue innovazioni. Visionario e spietato al tempo stesso: un vero capitalista americano. Un leader che ha sempre chiesto il massimo agli altri ma anche a se stesso, temprato dalle durissime esperienze della sua vita. Un’ esistenza piena di sofferenze e di resurrezioni esaltanti. Febbrile nel sovrapporsi delle curiosità e delle scelte di vita controcorrente, così come nell’ attività imprenditoriale. Abbandonato dai genitori naturali, adottato da una coppia di proletari, alla continua ricerca di se stesso nei campus californiani (senza mai laurearsi) e poi in India. L’ adesione al buddismo, la fuga nella droga e il ritorno. A vent’ anni la relazione sentimentale con Joan Baez, a 30 imprenditore di successo che sfiora l’ omologazione concedendosi una festa di compleanno nella quale canta Ella Fitzgerald. E poi le guerre con Bill Gates e la sua Microsoft, fino alla riappacificazione degli ultimi anni, senza rinunciare a qualche ironica rasoiata: «Bill avrebbe sicuramente avuto vedute più ampie se, in gioventù, avesse fatto un’ incursione nell’ Lsd». Maniacale nella cura della privacy (poche notizie sulla sua odissea medica, punteggiata di ricoveri, interventi chirurgici e un trapianto di fegato, riflettori lontani dalla moglie e dai tre figli), Jobs lo è stato anche nel suo perfezionismo come progettista e industriale. Una volta, a Londra, gli chiesero perché avesse poca simpatia per gli inglesi: «Perché le vostre grosse prese elettriche deturpano i miei adattatori» fu la risposta beffarda e bruciante. Prodotti straordinari, frutto anche del superlavoro delle fabbriche come quella cinese della Foxconn e di una selezione durissima della dirigenza. Più morbido negli ultimi anni, Jobs è stato a lungo un padre-padrone capace di lanciare oggetti contro chi non rispettava le sue indicazioni e dal quale chi doveva presentargli un nuovo progetto si recava come se andasse al patibolo. Temuto, ma anche amato dalla sua squadra. E adorato dalle schiere di suoi fan che oggi lo piangono davanti agli Apple Store di tutto il mondo. Per i suoi prodotti, ma anche per il suo carisma e per quella storia umana travagliata che una sola volta, togliendosi la corazza davanti agli studenti di Stanford, raccontò nel 2005. Il confronto continuo con la morte, «migliore invenzione della vita», che aiuta a essere lucidi e a mettere in prospettiva i fatti. Fino all’ invito ai ragazzi a non smettere mai di avere fame e a seguire il loro istinto anche a costo di fare scelte di rottura: «Stay hungry, stay foolish!»
Un genio visionario e spietato. E’stato il pifferaio magico globale
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