Je ne regrette rien. Franco Bernabè può canticchiare il celebre ritornello che Edith Piaf dedicò alla Legione straniera. Rien de rien, nemmeno di non aver difeso Telecom giocandosi fino allultimo dollaro: avrebbe sepolto lazienda nei debiti, sotto quella montagna di carta che la madre di tutte le scalate ha rovesciato prima sulla gestione Colaninno poi su Tronchetti Provera. E lui, profeta disarmato, sapeva come sarebbe andata a finire. Ogni volta che gli chiedono con petulante e morbosa curiosità perché non aveva rilanciato dopo laudace puntata della razza padana, risponde:
Non, je ne regrette rien. La correttezza austro-ungarica e leducazione ricevuta nei Lehrjahre trascorsi allufficio studi Fiat, gli imponevano di chiedere prima il consenso degli azionisti. Come si sa, il noccioliono duro si squagliò e Umberto Agnelli che, attraverso Ifil, ne era il perno, gettò la spugna. Morire per Telecom Italia? Valeva il motto che il cancelliere Bismarck riservava alla sorte dei Balcani per la quale non avrebbe rischiato la vita di un granatiere, della quale, ovviamente, non gli importava un tubo. A discolpa dei nocciolini, bisogna dire che a Torino la festa era finita (Umberto lo sapeva prima ancora che Gianni Agnelli lo proclamasse ufficialmente), i banchieri non erano cuor di leoni e quel modello di privatizzazione era utopistica: la public company in Italia è un mito al pari della governabilità, per la prima manca il mercato finanziario, per la seconda il mercato politico.
Non, rien de rien. Nemmeno quella fosca, lugubre primavera del 1993, quando Giuliano Amato, presidente del Consiglio, gli affidò lEni della quale era da nove mesi direttore generale. Gabriele Cagliari era agli arresti e Bernabè decise di portare in tribunale i conti Enimont, svelando al pool mani pulite la madre di tutte le tangenti. Rien de rien, non cè nulla da recriminare, fece il suo dovere; e il dovere si sa è quasi sempre doloroso, spesso implacabile. Cagliari si suicidò il 20 luglio nel carcere di San Vittore dopo 134 giorni di carcerazione preventiva; ad appena 72 ore di distanza, Raul Gardini si tirò due colpi di pistola, uno dei quali mortale. In mezzo alle macerie istituzionali e alle tragedie personali, a Bernabè e ad altri uomini come lui, toccò salvare il salvabile. Gli riuscì talmente bene che i suoi cinque anni al vertice del colosso petrolifero sono diventati un caso studiato alla Harvard Business School. Quella performance da primato è rimasta negli annali ed è senza dubbio un punto di riferimento per rimettere in sesto un altro colosso dai piedi di argilla, come la Telecom spossata da un decennio di massima incertezza e instabilità.
AllEni lo aveva portato Franco Reviglio, economista, grande esperto fiscale e docente a Torino dove Bernabè, figlio di un ferroviere trentino, dotato di una intelligenza sistematica e una volontà di ferro, si era laureato giovanissimo. Il professore, tirandolo fuori dallufficio studi Fiat, laveva accolto in quel gruppo di giovani brillanti poi chiamati Reviglio boys, insieme a Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Alberto Meomartini. Poi le loro vite si separarono. Tremonti venne prestato a Rino Formica, Meomartini e Bernabè invece seguirono il loro maestro nel 1983, quando Bettino Craxi, ispirato da Giuliano Amato, lo collocò al vertice dellEni. Lì, nel palazzo di vetro color bottiglia sul laghetto artificiale dellEur, monumento alla modernità voluto da Enrico Mattei quando Roma preparava le Olimpiadi del 1960, in cima allazienda-potenza del capitalismo pubblico, il giovane assistente del presidente (era nato a Vipiteno il 18 settembre 1948) tirò fuori lesperienza acquisita nellazienda-potenza del capitalismo privato.
La mission di Reviglio era ricondurre al mestiere originario lente, trasformato nel decennio 70 in un mastodonte simile allIri, una conglomerata che produceva perdite per 1.500 miliardi e accumulava debiti per 19 mila miliardi di lire. Dopo sei anni nei quali Bernabè affila le lame del tagliatore di teste, la ristrutturazione ha successo: lEni torna a generare utili per 1.500 miliardi e lindebitamento viene dimezzato. Soprattutto, il gruppo si concentra di nuovo sullenergia. Ceduta la Nuovo Pignone alla General Electric, lultimo passaggio, senza dubbio il più difficile, è la vendita di Enichem. Lacquirente naturale è Montedison e il potere politico toglie loperazione dalle mani del professore, per consegnarla a un manager interno, un tecnico di lungo corso, Gabriele Cagliari, che proviene proprio dalla chimica. Raul Gardini, alla testa del gruppo Ferruzzi, che controlla Montedison, concepisce lidea di creare un campione nazionale di primaria grandezza, Enimont. Un sogno che si scontra con lostilità dellestablishment finanziario e con la rapacità del Palazzo foraggiato ampiamente da Gardini e Cagliari. Intanto, in soli due anni, i debiti dellEni tornano a 13.400 miliardi: si stanno accumulano le premesse del collasso, anche senza lintervento della magistratura.
Bernabè assiste impotente allo sfascio del capolavoro che aveva portato a termine sotto la guida di Reviglio. Ma proprio a lui Giuliano Amato, presidente del Consiglio, affida la svolta. Nellestate del 1992, mentre allorizzonte si prepara la tempesta monetaria, il dottor sottile ridimensiona i boiardi alla testa dellindustria di stato. AllEni tutti i poteri operativi vanno a Bernabè, direttore generale, ma di fatto amministratore delegato. Lui manifesta una freddezza e una determinazione di stampo romitiano. E quando in primavera scoppia lo scandalo Mani Pulite, non ha esitazioni. Cagliari viene arrestato alla fine di marzo. Ai primi di aprile, Benabé chiede le dimissioni dei consigli di amministrazione di tutte le società e in due mesi sostituisce ben 250 consiglieri. La potatura comincia dallalto e prosegue giù giù lungo li rami. Nel solo 1993 vengono chiusi o venduti 73 business, licenziati o messi in libertà 15 mila dipendenti, con risparmi di 1.700 miliardi di lire, e in bilancio si iscrive un utile di 304 miliardi. Compiuta la ristrutturazione, riportato il focus dellazienda sulla ricerca ed estrazione di idrocarburi, vocazione originaria, arriva la privatizzazione. Parziale perché il Tesoro mantiene qualcosa in più del 30%, e nemmeno la vague liberista che ha contagiato destra e sinistra negli anni 90, riesce a fare di più. Ma è una bella vendita, nella quale Bernabè lavora a stretto contatto con Mario Draghi, direttore generale del Tesoro e stringe legami con la banca Rothschild dove poi, consumata la sconfitta Telecom, diventa vicepresidente per lEuropa (mentre Draghi sarebbe andato a Goldman Sachs con larrivo di Berlusconi al governo). Nel 1997 Eni viene fusa con Agip per aumentare controllo e concentrazione del gruppo, nel 1998 i debiti sono dimezzati, i profitti garantiti ogni anno e i dipendenti ridotti di 46 mila.
Il gran risanatore sembra luomo giusto per riacchiappare Telecom finita in una deriva nevrotica dopo il primo anno in cui il monopolio telefonico pubblico è diventato unazienda (quasi) privata. Porta con sé il metodo Eni e i suoi successi. Ma nel gruppo petrolifero era stato dominus (il Tesoro azionista di riferimento gli ha dato carta bianca), in Telecom diventa di nuovo il gestore per conto degli azionisti, un piccolo gruppo debole e diviso e una gran massa senza alcuna rappresentanza. Bruno Visentini avrebbe detto che mancava
Bernabè ha sempre apprezzato Sun Tzu e sostiene di avere applicato alcune sue teorie: limpiego moderato della forza, lintelligence, la ritualizzazione del conflitto. Ma una scalata è una guerra di sterminio, di fronte alla quale lo stratega cinese del III secolo avanti cristo, avrebbe consigliato la sorpresa, la rapidità nellazione, la mobilità delle truppe. O lo schieramento di un esercito molto più potente. Bisogna dire che il giovane manager ci prova, mettendosi daccordo con Ron Sommer, capo di Deutsche Telekom. Fianco a fianco presentano la fusione come una cosa fatta, ma DAlema chiede al cancelliere Schroeder un impegno certo per la privatizzazione.
Comincia, allora, una traversata, non proprio nel deserto, ma fuori da incarichi di gran potere. Amato lo nomina rappresentante speciale per la ricostruzione in Kosovo, con Berlusconi va alla Biennale di Venezia. Ma intanto cerca di ricostruirsi anche una carriera imprenditoriale e fonda FB Group una società di investimenti nella quale coinvolge anche Chicco Testa e resta nelle telecomunicazioni. Fonda Andala H3G insieme a Tiscali (poi verrà venduta a Hutchison Wampoa del magnate cinese Li Ka-shing), prende il controllo di Netscalibur e di Telit che opera nella comunicazione detta M2M (machine to machine), si butta nel software con il gruppo Kelyan. Ha fatto del lavorar sodo la propria filosofia, allEni lo ricordano ancora entrare alle prime ore del mattino per chiudersi nel suo ufficio fino a notte fonda. Uno come lui non sta certo con le mani in mano. Il colpo migliore gli riesce con Rothschild dove nel 2004 fa confluire la sua società di advisory finanziario ottenendo la carica di vice presidente per lEuropa. Gran networker dietro latteggiamento schivo e laria da ragazzo timido che non lo ha mai abbandonato, lo troviamo dovunque ci sia da acquisire relazioni e influenza, dal Council on Foreign Relations alla sua filiazione Trilateral, dallAspen alle mitiche riunione del Bilderberg dove si incontra il governo mondiale, secondo le popolari teorie cospirative. Non può mancare la Cina del boom, infatti Bernabè entra nel consiglio (con ruolo non esecutivo) anche di Petrochina il colosso energetico più capitalizzato del mondo.
Insomma, la risalita ai vertici è stata ben preparata. Pur apprezzato nel centrodestra variante tecnocratica, le simpatie maggiori vengono dal centrosinistra (e viceversa). Dopo le elezioni, dichiara a Franco Locatelli del Sole 24 Ore:
Un Dumas per Telecom
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