Nel momento in cui la politica, puntellata da qualche comitato di saggi, cerca di risistemare i suoi assetti interni (di governo e di funzionamento istituzionale) sembra giunta anche l’ora di ripensare il rapporto fra politica e società civile, un rapporto sempre più stanco e inerte.
Non ho mai molto amato l’enfasi accumulata sul termine «società civile», anche se sono stato fra i primi ad apprezzare la propensione dei partiti ad immettere nelle proprie linee esponenti di rilievo dell’economia e della società. La cosa iniziò con gli «esterni» nella Dc demitiana e gli «indipendenti di sinistra» nel Partito comunista. Erano personaggi davvero notevoli (solo che si pensi ad Andreatta, Lipari, Scoppola, Ruffilli, Ossicini, Napoleoni, ecc.). Ed in brevissimo tempo la loro carica elitaria stabilì una implicita superiorità della società rispetto ad una politica tutto sommato banale, fatta da tanto mestiere e da tanta frequentazione del consenso popolare.
Quella «aura» di superiorità è rimasta impressa per decenni in un’opinione pubblica convinta che nella società civile ci fosse il meglio e nella politica ci fosse il peggio; e i partiti furono quindi spinti ad attrarre e cooptare quanta più società civile possibile, confrontandosi in permanenza con i suoi giudizi e i suoi orientamenti. Oggi le cose sono profondamente mutate: personaggi del livello citato non ce ne sono più; i cooptati dalla politica (anche quando vengono da mondi associativi con alta professionalità e forte senso politico) rischiano di non avere spazi di leadership, nell’immagine come nella funzione; il confronto culturale fra i due mondi è spesso ridotto a ibridi compromessi. Ed avviene, come sta avvenendo, che la politica tenda a prescindere dalla dinamica della società e dei suoi concreti protagonisti; preferisce i «saggi», più professorali e più freddamente funzionali alle proprie strategie.
La trentennale stagione della società civile «inverata» nella politica sembra giunta al termine. E non a caso in essa si affermano tendenze non alla collaborazione, ma alla contestazione della politica, quasi confinanti con l’antipolitica. In nome di una ormai esausta superiorità essa pretende nuovi programmi e nuovi soggetti politici, la cui bassa qualità rischia di assorbire le pulsioni populiste espresse dai vari ceti sociali.
Società civile e politica sono quindi destinati a una decadenza progressiva del loro rapporto, e ad un distacco dei loro rispettivi destini. La politica proceda allora nei suoi faticosi processi di ristrutturazione interna e di sperimentazione di nuove leadership; mentre la società civile faccia lo stesso percorso, in una crescente e necessaria autonomia dalla politica. Il meticciamento fra i due mondi non ha avuto successo, ognuno di essi torni quindi a riprendere la propria orgogliosa via di sviluppo. Sarà più facile per la politica che ha le sue sedi di condensazione del cambiamento; più difficile sarà per i tanti soggetti socioeconomici trovare processi, strade e sedi nuove per esplicitare pubblicamente la loro autonoma crescita. Il cammino sarà necessariamente faticoso, ma vale almeno la pena di avviarlo, fuori della inerte zona d’ombra in cui vivacchia oggi il rapporto fra politica e società civile.
Un divorzio consensuale
Commenti disabilitati.