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Un concorso di idee per salvare Prato

Forse dovremmo prendere in considerazione un’idea-limite: un concorso internazionale di idee per risolvere il caso Prato. Del resto la città una vocazione cosmopolita la dimostra sia perché resta la Chinatown più densa d’Europa sia perché persino John Malkovich ha voluto aprire in centro uno spazio commerciale con annessa caffetteria.
Dicevamo del concorso internazionale perché tutti i nodi che fanno di Prato un unicum in quanto a presenza di una comunità straniera, dinamiche imprenditoriali di distretto e problemi di convivenza, sono lungi dall’esser sciolti. Il dibattito, come ha dimostrato nei giorni scorsi un’affollata assemblea di magistrati al teatro Metastasio, si concentra sugli aspetti giudiziari della repressione.
“Si può applicare alla criminalità cinese importata il reato di mafia oppure no?”, questa è la domanda che in questo momento divide i pratesi specie dopo la sorprendente intervista al Corriere Fiorentino del procuratore capo della città, Piero Tony, che ha espresso un parere negativo.
Dunque Prato diventa un laboratorio giuridico mentre le dinamiche economiche sono fuori controllo e nessuno sa dove indirizzarle. E’ vero che l’attività tessile è in leggera ripresa ma in pochi anni il distretto tradizionale ha perso il 50% del fatturato e il 50% dei dipendenti.
C’è chi sostiene che sia mutato il profilo stesso della città: nella formazione del reddito aumenta il peso dei pensionati e dei cassaintegrati, una voce consistente è rappresentata dagli affitti pagati dai cinesi e in definitiva la struttura economica si è come adagiata sul declino.
I due distretti, quello tradizionale pratese e quello nuovo rappresentato dal business cinese del pronto moda, coesistono. Il sindaco Roberto Cenni aveva parlato in passato di un’integrazione economica da realizzarsi con una sorta di filiera integrata.
I cinesi avrebbero dovuto comprare da Prato i tessuti, avrebbero dovuto uscire dal sommerso e realizzare un prodotto di maggior qualità con l’aiuto della città, che in cambio avrebbe stretto un accordo con grandi catene tipo H&M per collocare i nuovi prodotti tosco-cinesi.
Niente di tutto ciò è accaduto e il sindaco obiettivamente si trova in difficoltà visto che la sua azienda di abbigliamento, la Sasch, uno dei vanti di Prato, è rimasta vittima della Grande Crisi e sta affrontando la procedura del concordato fallimentare.
Una novità in città sicuramente c’è ed è rappresentata dalla regolarità dei controlli che reprimono le attività illegali dei cinesi, le manifatture fantasma in cui giovani operai vivono da schiavi, ma nonostante i sequestri gli imprenditori asiatici continuano a produrre le medesime cose, un abbigliamento di bassissima qualità che però si giova dell’etichetta made in Italy ed è apprezzato nei mercatini e nei negozi di Croazia, Polonia e Romania.
Il tutto in nero e senza pagar tasse. Lo slancio della presidente Emma Marcegaglia che aveva chiesto all’Unione Industriali di Prato di aprire un canale di collegamento con l’imprenditoria cinese iscrivendo all’associazione almeno dieci di loro è rimasto lettera morta.
E così tutto scorre uguale a prima. I cinesi non hanno nessuna intenzione di cambiare modello di business, di fabbricare prodotti diversi e di cercarsi clienti più attenti alla qualità. L’impressione è che si sia esaurita la spinta propulsiva, rappresentata dalla sconfitta della sinistra e l’avvento di una giunta di centro-destra.
Qualche progetto ambizioso Cenni lo coltiva come quello di allungare la filiera del tessile pratese in direzione delle economie nordafricane in sviluppo come Tunisia e Marocco, ma è ancora presto per poterne parlare come di un progetto concreto. Intanto non c’è nessuna sede in cui si discute fattivamente del futuro di Prato e le polemiche sull’aeroporto prendono il sopravvento.
Ai cronisti non resta che annotare come il 30% dei bambini che nascono a Prato sia cinese e vada avanti senza tregua il vorticoso turnover di aziende asiatiche che aprono e chiudono a velocità vorticosa.

La Regione Toscana con l’avvento del neopresidente Enrico Rossi aveva dichiarato che la Toscana sarebbe ripartita dalla città del Bisenzio ma il progetto che caldeggia è un centro hi-tech italo-cinese, visto con grande attenzione da parte di Pechino e con viva apprensione da parte dei pratesi che temono un’ulteriore cessione di know how.

I pessimisti sostengono che non c’è che rassegnarsi, che niente in materia di vera integrazione andrà in porto e che per ragionare in positivo bisognerà attendere le seconde generazioni cinesi e l’affermarsi dentro la comunità di una borghesia “gialla” meno miope, più interessata a stabilizzare la propria presenza in città e a farsi parte attiva del governo del territorio. Nell’attesa il lancio di un concorso internazionale non è poi una brutta idea.

Fonte: Corriere della Sera del 9 marzo 2011

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