• sabato , 23 Novembre 2024

Un capitalismo che non si fida del suo paese

La vecchia favola del capitalismo senza capitali, pronta per l’uso in ogni occasione a giustificare i limiti del nostro sistema non regge più. Era una favola prima, quando semmai era un capitalismo con i capitali all’estero, e tanto più lo è oggi, con capitali all’estero (legalmente e non) e in patria, abbondanti come non mai. Il problema è che è un capitalismo con i capitali fermi, più propensi alla rendita che all’investimento produttivo, al confronto competitivo. L’Italia è piena di “family office” messi in piedi per gestire i patrimoni delle grandi famiglie. Hanno in mano centinaia di milioni e in alcuni casi miliardi di euro di signori che hanno venduto la loro azienda e piuttosto che comprarne un’altra preferiscono staccare cedole, e di altri signori che l’impresa ce l’hanno ancora ma che piuttosto che impiegare i milioni accumulati per farla crescere preferiscono tenerli al calduccio. In attesa, in molti casi, di vendere anche loro. Hanno tirato o stanno tirando i remi in barca. Sono in tanti che vendono o che meditano di farlo, e non è neanche un male. Il ricambio, nuove energie, fanno bene all’impresa, all’economia e alla crescita. Il problema è che mancano quelli, italiani, che comprano. Sono pochi. Comprano i francesi, a mani basse, i tedeschi, gli americani.
Non c’è neanche, da noi, quella cultura anglosassone del give back, del restituire alla società almeno una parte di quello che la società ti ha dato. Non ci sono i centri di ricerca universitari finanziati dalle grandi famiglie, le biblioteche, i centri di assistenza. Qualcuno per fortuna comincia a occuparsi dei nostri disastrati monumenti, e speriamo che l’esempio faccia proseliti.
Ma andiamo oltre la filantropia. Give back è anche investire nel tuo paese una parte di quello che il tuo paese ti ha dato. Ma c’è una ragione, anzi più d’una, a spiegare perché da noi questa cultura non c’è. La prima, la stessa che sta dietro da sempre ai capitali all’estero, è che non ci si fida. Si tende ad allontanarsi dal fisco, ovviamente, ma c’è qualcosa di più profondo, ovvero una diffidenza mai dissipata nei confronti di uno stato che si ha l’impressione ti rispetti poco e del quale tu ti possa fidare poco.
La seconda è che gli imprenditori nostrani, a differenza per esempio di quelli americani, non sentono gratitudine nei confronti del paese nel quale hanno costruito la loro ricchezza, per la semplice ragione che ritengono che in realtà questo paese non abbia dato loro molto. Che hanno fatto “quello che hanno fatto” non grazie a questo paese ma “nonostante” questo paese.
La prima impressione è di irriconoscenza, ma un attimo di riflessione ci fa venire il dubbio: siamo sicuri che abbiano torto? Onestamente non del tutto. Il nostro è un capitalismo modesto, con scarsa visione e senza ambizioni globali, e ora salvo le debite e non marginali eccezioni anche spompato. Ma intorno cosa c’è?
Ci eravamo assopiti subito dopo Alitalia, ci ha risvegliato Bulgari, ci ha dato una scossa Parmalat. Ma guardiamo bene dentro a questa storia. Parmalat era lì, sana, profittevole e con un miliardo e 400 milioni di cassa. E in più senza padroni. Il profilo perfetto per una preda. Non da ieri, ma pronta per chiunque avesse qualche idea e una bella manciata di milioni. Corteggiata pubblicamente dai francesi di Lactalis e dai brasiliani di Lacteos.
I nostri sono stati a guardare, hanno aspettato il novantesimo minuto e poi si sono rallegrati di aver ottenuto per decreto governativo i tempi supplementari. Non è un gran spettacolo.
Il capitalismo vitale ha altri tempi, altri modi, rapinosi anche, se non ci si sa difendere. E qui c’è un prima e un dopo. Il prima è una domanda: è sano per un’azienda tenere in cassa un miliardo e 400 milioni di euro? In genere si mettono soldi in un’attività perché si pensa che possano produrre più ricchezza se messi in banca o in Bot. Il compito dell’impresa è proprio quello. E allora forse non avevano del tutto torto i fondi che avevano in portafoglio il 15 per cento di Parmalat (che lunedì scorso hanno venduto a Lactalis) quando premevano sul management perché con quei soldi facesse qualcosa, ovvero li investisse in attività produttive oppure li restituisse agli azionisti. Enrico Bondi ha ritenuto di non fare né l’una né l’altra cosa, con il risultato che Lactalis, se le manovre italiane non riusciranno a bloccarla, si troverà nell’azienda comprata i soldi che ha speso per acquistarla più tutto il resto. Un bell’affare per i compratori, o, se preferite, un bel regalo: la Parmalat gratis o quasi.
Bondi è un grande manager, onesto, rigoroso, determinato, capace, il miglior risanatore di aziende che l’Italia abbia avuto. Non è però l’uomo dello sviluppo, è un manager risanatore e gestore bravissimo in tutte e due le cose ma non è un manager imprenditore.
E veniamo al dopo, o meglio all’oggi. L’unico vero potenziale acquirente italiano di Parmalat è la Ferrero, una delle più grandi, belle, innovative aziende alimentari del mondo. Ricchissima l’azienda e ricchissima la famiglia che la possiede. Ebbene, come le cronache ci hanno raccontato, la Ferrero aveva guardato la Parmalat quando costava un terzo in meno di adesso e aveva rinunciato. Poi aveva tentato la conquista di Cadbury e aveva rinunciato. Tornata su Parma, fino a alla settimana scorsa si è mostrata tanto titubante da lasciarsi sfilare dai francesi la possibilità di acquistare il 15 per cento posseduto dai fondi. Perché? Non per motivi industriali, Parmalat è un “gioiellino”, vero questa volta. Una multinazionale con presenze importanti in Canada e Brasile, Sud Africa e Australia. Grazie a Bondi guadagna bene e ha la cassa piena, si integra anche con la struttura distributiva della Ferrero senza sovrapporsi nei prodotti.
Quello che si dice a Milano è che il patron della casa di Alba, Michele Ferrero, non ami crescere per acquisizioni, e infatti la lunga strada che ha fatto è stata per crescita interna. E’ una buona ragione. Alcuni aggiungono che ci sarebbe un problema manageriale, Michele Ferrero saprebbe di avere una struttura perfettamente in grado di portare avanti il suo business seguendo la strada sin qui percorsa ma non preparato ad affrontare e gestire integrazioni complesse. Voci che vanno prese come tali, ed è comunque apprezzabile e saggio che un grandissimo capitano d’industria abbia sempre presente la misura del passo che può fare con i mezzi finanziari e umani dei quali dispone.
E tuttavia anche qui un dubbio viene. Ci sono fior di manager in giro che hanno dimostrato di saper crescere e integrare, i primi che vengono alla mente sono Guerra in Luxottica e Tondato in Autogrill, che hanno sviluppato in sintonia con le famiglie azioniste degli imperi con ambizioni globali.
Viene allora da pensare che ci sia dell’altro. Che forse questo problema di management possa spiegare la rinuncia a Cadbury ma non basti a spiegare la prudenza su Parmalat. Che Ferrero del quale non si può certo dire che abbia tirato i remi in barca, visto che la sua azienda cresce nel mondo e, grazie alla sua spinta, dedizione e passione personale non smette di innovare come tanti altri suoi colleghi, non si fidi dell’Italia, non si fidi abbastanza dell’Italia.
E allora, aspettando di capire quale sarà il destino di Parmalat, e seguendo con perplessità i difensivi progetti tremontiani, forse il problema da affrontare seriamente è come ricostruire (o forse costruire?) la fiducia degli imprenditori italiani nel loro paese, e anche di quelli esteri verso il nostro paese visto che se a comprare da noi sono molti, a costruire imprese e attività sono invece molti meno.
La missione della politica non è correre dietro al capitalismo, che è comunque, sempre, assai più veloce. E’ precederlo, per renderlo più efficiente e migliore, nell’interesse di tutti.

Fonte: Affari e Finanza del 28 marzo 2011

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