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Troppe tasse sui redditi

ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI

Giornate Lincee in ricordo di

GIORGIO FUA’

(5-6 ottobre 2006)

Antonio Pedone

“Troppe tasse sui redditi”

1. Le reciproche relazioni tra il livello e le forme del prelievo tributario da un lato, e la crescita e la struttura delle economie moderne dall’altro, sono molto difficili e complesse da accertare. Tali relazioni dipendono da numerosi fattori non tutti facili da misurare con indicatori quantitativi affidabili e stabili nel tempo. Nel campo dell’analisi dei rapporti tra politica tributaria e sviluppo economico si corre spesso il rischio, da un lato, di basarsi soltanto su astratte formulazioni ideologiche e eleganti modelli formali, o, all’altro estremo, di riferirsi prevalentemente a una confusa praticaccia ispirata da interessi molto concreti di contribuenti, consulenti, burocrati e politici, come confermano anche molti dibattiti ricorrenti.
Giorgio Fuà, nei suoi lavori, ha mostrato quanto sia possibile e utile integrare l’uso di schemi logici necessariamente semplificati e astratti con il riferimento concreto ad aspetti del mondo reale così come essi si presentano in una determinata situazione storica di un dato paese,e soprattutto di un paese a sviluppo economico tardivo come l’Italia. Il contributo, anche metodologico o di approccio, di Giorgio Fuà appare evidente nel brillante pamphlet (la cui seconda parte è stata scritta da Emilio Rosini) “Troppe tasse sui redditi” (1985), ma è rintracciabile in molti altri suoi scritti, e soprattutto in “Lo Stato e il risparmio privato” (1961). In essi, Fuà analizza i problemi che le imposte sul reddito incontrano sia in generale nel perseguire obiettivi (di efficienza, equità, semplicità) dal contenuto cangiante e legati tra loro da trade-off mutevoli, sia, in particolare, nella loro applicazione in sistemi economici con diverso grado di sviluppo e in presenza di vincoli (strutturali, istituzionali, amministrativi, internazionali) molto diversi.
Il ruolo preminente in termini di gettito assunto dall’imposta personale progressiva sul redito complessivo nei moderni sistemi tributari dei maggiori paesi incontra limiti differenziati secondo la struttura economica prevalente, gli assetti istituzionali e le pratiche amministrative, il grado di integrazione internazionale, e le attitudini e i comportamenti dei cittadini. Fuà mostra come questa diversità nelle realtà dei singoli paesi in una determinata fase del loro sviluppo economico influenzi il modo in cui si pongono concretamente i problemi generali che un’imposta personale progressiva notoriamente incontra: la possibilità di definire, misurare e accertare in modo omogeneo il reddito dei diversi soggetti; la possibilità di considerare la nozione tributaria di reddito complessivo come un buon indicatore del benessere di ciascun individuo; e la possibilità di riferirsi alla distribuzione formale del carico tributario tra i diversi individui, trascurando l’incidenza effettiva del prelievo. Quanto più questi problemi sono gravi e non vengono esplicitamente affrontati, tanto più il ricorso a questa forma di prelievo è percepito come eccessivo e sperequato, e tende ad alimentare fenomeni di elusione ed evasione.
L’esperienza della riforma tributaria italiana del 1973, secondo Fuà, ne è una prova, ed è anche l’occasione per formulare alcune proposte che, a prima vista, possono apparire paradossali, ma potrebbero essere utilmente assunte come spunti per ispirare una ricomposizione del prelievo tributario e del finanziamento in generale della spesa per servizi pubblici o di interesse comune. Un loro sviluppo potrebbe anche servire per ridurre il profondo iato oggi esistente tra sistema tributario ideale, sistema tributario legale, sistema tributario effettivo, e sistema tributario percepito, e portare verso un prelievo sostanzialmente, e non solo formalmente e apparentemente, meno distorsivo, iniquo, e confuso.

2. In “Troppe tasse sui redditi”, Giorgio Fuà inizia con il descrivere accuratamente un fatto: il “cataclisma fiscale” verificatosi in Italia in seguito all’introduzione della riforma tributaria del 1973-74 che ha prodotto un eccezionale aumento del prelievo tributario complessivo e, in particolare, del peso dell’imposta personale progressiva sul reddito complessivo.
I dati sono impressionanti. Nei dieci anni seguenti l’introduzione della riforma, tra il 1973 e il 1983, “mentre cresce mostruosamente la tassazione del reddito definita in senso stretto” (cha passa dal 7 al 19% del reddito nazionale), “si ha un contemporaneo aggravio di altri tipi di prelievo basati anche essi sui redditi. Sommando tutto insieme, si trova che gli oneri basati sui redditi balzano da meno del 21% del reddito nazionale nel 1972 a oltre il 47% nel 1983” (Fuà e Rosini 1985, 15).
I dati sono ancor più impressionanti guardandoli oggi in una prospettiva storica comparata. Dal momento in cui è stata attuata la riforma tributaria (intorno alla metà degli anni settanta) ad oggi (2005), il prelievo tributario complessivo rapportato al prodotto interno lordo, si accresce in Italia di circa 16 punti in trenta anni, più che in qualsiasi altro paese europeo e dell’area OCSE, eccetto la Spagna, che però partiva e rimane a un livello notevolmente più basso. In termini di prelievo tributario in senso stretto, escludendo cioè i contributi sociali, l’aumento sperimentato dall’Italia nel corso dell’ultimo trentennio, supera largamente anche quello della Spagna, oltre che di tutti gli altri paesi dell’area OCSE.
Si tratta del più elevato e prolungato aumento della pressione tributaria verificatosi nella storia del nostro paese e senza riscontri nelle esperienze contemporanee dei maggiori paesi industrializzati. Inoltre, questo fortissimo incremento non si è verificato con un andamento costante e regolare, ma a sbalzi, con forti impennate concentrate in alcuni sottoperiodi. Esso ha comportato una profonda modifica nella composizione del prelievo, provocando un capovolgimento della posizione relativa di imposizione diretta e indiretta: quest’ultima, che era stata prevalente sino a oltre la metà degli anni Settanta, viene scavalcata dall’imposizione diretta e inizia un lungo declino relativo.
Ciò è dovuto largamente al fatto che l’eccezionale aumento del prelievo tributario complessivo è attribuibile, soprattutto nel primo decennio dopo l’avvio della riforma cui si riferisce Fuà, quasi esclusivamente all’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF). Anche l’espansione di questa imposta è, nel caso italiano, eccezionale in una prospettiva storica e comparata. Nel trentennio successivo alla riforma, l’aumento sperimentato dal gettito dell’imposta personale progressiva sul reddito, in termini di PIL, è stato in Italia superiore a quello di tutti i paesi dell’area OCSE. In particolare, nel decennio 1975-1985, l’incidenza dell’IRPEF sul PIL è aumentata in Italia di oltre cinque punti mentre nella media dei paesi europei e dell’area OCSE si avvicinava appena a un punto.
Questo grande balzo in alto del gettito dell’IRPEF è attribuibile in via principale a due fattori: da un lato, all’introduzione di nuove modalità e tecniche di accertamento e riscossione dell’imposta (ritenute alla fonte, autoliquidazione, acconti); dall’altro, all’effetto dell’elevata inflazione innescata dalla crisi petrolifera del 1973 che, interagendo con la progressività dell’IRPEF, ha dato luogo a un massiccio drenaggio fiscale. Ciò provoca un brusco innalzamento delle aliquote medie e marginali dei soggetti che non riescono a sfuggire all’applicazione dell’imposta, accentua la differenza di trattamento tributario tra coloro che sono pienamente colpiti e coloro che sono stati salvaguardati e protetti dall’applicazione piena ed effettiva della progressività dell’imposta sin dall’introduzione della riforma o sono riusciti a rifugiarsi in forme di elusione legale (sfruttando e allargando le smagliature e i buchi presenti nella rete tributaria) o sono stati spinti o si sono nascosti nel labirinto dell’evasione favoriti dalle piccole dimensioni, dalla scarsa tracciabilità delle operazioni e dalla impreparazione dell’amministrazione finanziaria a gestire un sistema tributario di massa (con un numero di soggetti da controllare passato improvvisamente da poco più di quattro milioni a ben oltre venti milioni).

3. La critica di Fuà a un livello elevato di prelievo tributario costituito prevalentemente da imposte sui redditi, come era accaduto in Italia a seguito dell’introduzione della riforma tributaria del 1973-74, si basa essenzialmente su tre argomenti:
a) avere trascurato gli effetti negativi in termini di efficienza e di equità del sistema derivanti dall’elevata dimensione del prelievo tributario, e in particolare di quello sui redditi;b) avere trascurato la presenza di specifici vincoli strutturali, connessi cioè alle caratteristiche proprie di una data economia in una certa fase del suo sviluppo, presenti nell’economia italiana del tempo;
c) avere trascurato i limiti teorici e pratici che, in generale, possono far dubitare che l’imposta sui redditi sia “un’imposta per eccellenza” superiore alle altre forme di prelievo, come sostenuto da molti economisti. Mi limiterò a un breve commento su ciascuno di questi tre punti.
Sul primo punto, Fuà ritiene che, come in molti altri campi di attività, anche nell’azione della Pubblica Amministrazione, sia dal lato della spesa pubblica sia dal lato del prelievo tributario, oltre un certo punto si incontrino diseconomie di scala. Egli contesta che sia possibile presumere che in ogni caso “gli aumenti di spesa pubblica significhino di regola una migliore soddisfazione delle esigenze sociali”. Non soltanto perché “vasti compiti possono essere lasciati all’azione dell’associazionismo spontaneo”, ma soprattutto perché “la Pubblica Amministrazione, come ogni struttura organizzativa, ha i suoi limiti di capacità. Se le si chiede di fare troppo, si ottiene un lavoro mal fatto, cioè nella fattispecie un cattivo prelievo ed un cattivo impiego dei fondi”. E ritiene che questi limiti “sono stati abbondantemente travalicati in Italia” (Fuà 1985, 22-23).
Si tratta di un aspetto importante perché, al di là dei problemi di misurare con sufficiente approssimazione la dimensione delle prestazioni e dei servizi pubblici in corrispondenza della quale tali limiti si manifestano, esso pone in luce un fattore cruciale che influenza l’adempimento volontario dei propri doveri tributari da parte dei cittadini, e cioè la convinzione che le imposte pagate siano destinate a un buon uso da parte dello Stato.
La percezione di inefficienza, e tanto più di sprechi e abusi, nella gestione della spesa pubblica alimenta la resistenza al pagamento delle imposte dovute che si accresce anche in corrispondenza dell’elevatezza delle aliquote. La concentrazione del prelievo su una particolare forma di base imponibile, quale quella costituita dai redditi, accentua e può rendere insopportabili gli effetti indesiderabili, “come per esempio quello di dare luogo a casi di iniquità nella distribuzione del gravame o di intralcio alla produzione”, che ogni forma di prelievo presenta e che possono essere tollerabili solo “se essa è applicata in misura modesta” (Fuà 1985, 28).
Si potrebbe anche aggiungere che, quando il gettito prelevato con l’imposta personale progressiva sul reddito complessivo è molto elevato, è molto probabile che vengano sacrificati gli obiettivi di efficienza e di equità. L’obiettivo di efficienza per gli effetti disincentivanti delle alte aliquote marginali, per gli effetti distorsivi derivanti dalla proliferazione dei trattamenti tributari differenziati, e per l’impiego di risorse destinate da parte dei contribuenti alla ricerca di forme svariate di elusione ed evasione e, da parte dell’amministrazione finanziaria, al tentativo di contrastare tale ricerca spesso con risultati trascurabili e addirittura controproducenti come quando, in presenza di evasione diffusa, controlli inevitabilmente limitati a un ristretto numero di soggetti accrescono paradossalmente il senso di ingiustizia. Con l’ulteriore effetto, lacerante sul piano sociale, di contrapporre tra di loro le varia categorie di percettori di redditi diversi, peraltro spesso tra di loro strettamente intrecciate e colluse, fino alla costituzione e al funzionamento di un sistema economico parallelo e invisibile al fisco. Il solco tra evasori e tartassati diviene sempre più profondo, ma contemporaneamente diviene sempre più frequente il tentativo o il rischio di attraversarlo in un senso o nell’altro. Così, molti cittadini continuano a trovarsi “stretti tra l’arzigogolare per passare da tartassati a evasori e l’apprensione di passare da evasori a tartassati”, mentre la politica tributaria sempre meno riesce ad “evitare che, da un lato, si minaccino pene sempre più severe per gli evasori applicandole poi soprattutto nei confronti dei meno accorti, e, dall’altro, quando si tratta di procurarsi maggiori entrate, si ricorra ad una cerchia sempre più ristretta di tartassati” (Pedone 1979, 10).
Questi vari effetti negativi, compresa la diffusione dell’evasione e dell’economia sommersa, derivanti dall’elevato livello del prelievo tributario e dalla sua eccessiva concentrazione sulle imposte sui redditi, risultano accentuati dalla mancata considerazione della specificità della situazione italiana.

4. Veniamo così al secondo argomento portato da Fuà nella sua critica alle imposte sui redditi. Secondo Fuà, l’aspirazione a realizzare obiettivi elevati in termini di efficienza ed equità può indurre “ad adottare forme di prelievo tributario anche molto elaborate e raffinate, e astrattamente in grado di attuare gli obiettivi desiderati, ma che, di fatto, ottengono l’effetto opposto, proprio per aver trascurato il vincolo strutturale, e quello amministrativo ad esso strettamente connesso” (Pedone 1999, 280).
Aspirazioni molto alte sono apprezzabili se inducono “effetti di stimolo e di elevazione”, ma, se la loro mancata realizzazione induce “confusione, demoralizzazione e distorsione dei meccanismi di mercato, temo”, dice Fuà, “che il tentativo di comportarci come se fossimo più sviluppati di quanto siamo abbia in ultima analisi il risultato di ritardare o deviare il nostro sviluppo” (Fuà 1976, 1.9, 91-92).
In particolare, nel caso della riforma tributaria italiana del 1973-74, si era ipotizzata la prosecuzione di una tendenza (presente al momento dell’impostazione del disegno della riforma intorno alla metà degli anni Sessanta) verso una crescita dimensionale e organizzativa delle imprese. Poiché nei moderni sistemi tributari le imprese organizzate e dotate di una struttura contabile adeguata svolgono un ruolo fondamentale quali “collettori” per la raccolta delle imposte (quasi dei sostituiti d’imposta in senso generale e non tecnico), il fatto che al momento dell’attuazione della riforma quella tendenza fosse ormai bloccata e invertita ha costituito un grave colpo all’impianto della riforma. Così, quell’impianto ha sostanzialmente trascurato i vincoli strutturali legati alle caratteristiche proprie della realtà economica italiana costituita più di altre da un numero preponderante di imprese minori e di lavoratori autonomi e da una elevata frammentazione, disomogeneità e variabilità del tessuto produttivo. Ciò è stato riconosciuto da uno dei principali artefici della riforma (Visentini, 1993), considerandola “nel complesso positiva, tranne sul punto importante relativo alla imposizione sui redditi delle imprese minori” e dei professionisti, che rappresentano però realtà quantitativamente molto importanti nel contesto economico italiano.
Inoltre, i trattamenti tributari dei vari tipi di reddito sono risultati fin dall’inizio fortemente differenziati secondo la loro diversa natura e secondo le modalità e i regimi di accertamento. L’uniforme applicazione dell’imposta è risultata difficile anche nel caso di basi imponibili semplici, come i redditi da lavoro. Infatti, la struttura effettiva dell’occupazione può condizionare l’applicazione uniforme dell’imposta anche nei confronti dei redditi di lavoro similari, in quanto «la possibilità di accertare fedelmente i redditi da lavoro è maggiore nei riguardi dei dipendenti di quelle aziende che hanno una organizzazione ben formalizzata, requisito più frequente nelle aziende grandi che in quelle piccole», per cui, date le differenze di struttura dell’occupazione, «un modello di tassazione dei redditi che funzioni con margini di errore tollerabili nel Regno Unito può risultare invece inadattatissimo – un vero colabrodo – in Italia» (Fuà 1985, 39).
La mancata uniforme applicazione dell’imposta anche all’interno di categorie di redditi relativamente omogenei, insieme al diffondersi di trattamenti fortemente differenziati e percepiti come ingiustificati, oltre a turbare i rapporti sociali tra percettori di diverse categorie di reddito, mette in luce i limiti fondamentali dell’affermazione di coloro che considerano “la tassazione del reddito, specialmente nella sua forma personale progressiva, come l’imposta per eccellenza, migliore tra tutte” (Fuà 1985, 25).

5. Fuà elenca e critica i tre postulati fondamentali che stanno alla base della preferenza per la tassazione progressiva del reddito “motivata da un ideale di giustizia redistributiva largamente condivisibile, sebbene un po’ fumoso («è desiderabile ridurre le disuguaglianza individuali di benessere») (Fuà 1985, 25).
Il primo di tali postulati consiste nel ritenere che si disponga di “misure omogenee del reddito dei diversi individui”. Conviene ricordare che i problemi delle attuali imposte personali sul reddito complessivo nascono non soltanto per effetto della molteplicità delle correzioni apportate al reddito complessivo mediante varie forme di deduzioni e detrazioni, ma derivano soprattutto dalle difficoltà originarie di definizione, misurazione e accertamento dei singoli redditi che compongono il reddito complessivo. Tali difficoltà sono state accentuate dalle trasformazioni nelle strutture e nei rapporti economici e finanziari che hanno reso sempre più “convenzionale” la definizione, la misura e l’accertamento dei vari tipi di reddito a fini tributari.
Anche limitandoci alla nozione di reddito-prodotto, che rispetto alle altre nozioni comunemente suggerite (reddito-entrata e reddito-consumo) come base dell’imposizione personale presenta minori complicazioni (Lindahl 1933, Fuà 1961, Hicks 1981), si può notare che le difficoltà di definizione e di misura crescono in relazione alla complessità della struttura economica e finanziaria. La determinazione del prodotto netto non presenta particolari problemi quando la si ottiene confrontando grandezze omogenee e costanti nel tempo, misurabili in termini fisici, come ad esempio quantità di grano-input con quantità di grano-output. Le questioni si complicano, come è noto, con l’adozione di processi produttivi che impiegano, per la produzione delle singole merci, input intermedi costituiti da altre merci prodotte in proporzioni differenziate, imponendo il ricorso a criteri di valutazione per giungere a determinare un reddito netto.
Le diverse situazioni si differenziano ancor di più in presenza di beni capitali di lunga durata e di imprevedibili innovazioni tecnologiche, che hanno richiesto l’impiego di criteri sempre più convenzionali e ad hoc per determinare il reddito o l’«utile di esercizio». Anche tali criteri, sia pure continuamente variati e aggiornati, si sono rilevati sempre più inadeguati via via che si è ridotta la commensurabilità di input e output in termini di unità fisiche costanti ed omogenee, per effetto dell’innovazione merceologica, della terziarizzazione (con lo sviluppo dei servizi personali, finanziari, ecc.), e la centralità assunta dalla produzione e scambio di informazioni come segnali rilevanti per le aspettative e il comportamento dei diversi soggetti.
In tali situazioni, che riflettono le attuali condizioni dell’economia in continua evoluzione, la determinazione e misura dei vari tipi di reddito si basa inevitabilmente su criteri convenzionali che, per quanto si cerchi di fondare su elementi oggettivi e neutrali, comportano valutazioni soggettive ineliminabili. Ne derivano trattamenti tributari differenziati per i diversi tipi di reddito, secondo i criteri di calcolo convenzionali adottati nei singoli casi, l’andamento di alcune circostanze esterne (quali il tasso di inflazione, l’innovazione tecnologica e finanziaria), gli incentivi e le reazioni di comportamento individuali.
Le conseguenti ineliminabili differenziazioni nei trattamenti tributari risultano sopportabili finché rimangono limitate come intensità ed estensione. Quando l’intensità cresce per effetto di un grado di progressività rilevante, e quando l’estensione si amplia per effetto del mutato campo di applicazione dell’imposta che diviene di massa (come è accaduto per l’IRPEF), si riduce la possibilità di perseguire coerentemente obiettivi di efficienza e di equità (orizzontale e verticale) mediante l’imposta personale progressiva sul reddito complessivo. La percezione di trattamenti tributari differenziati molto rilevanti e non giustificati accentua la spinta all’elusione e all’evasione dell’imposta, che, a sua volta, secondo la diversa possibilità e capacità di farvi ricorso da parte dei soggetti percettori dei vari tipi di reddito, riduce ancora la possibilità dell’imposta di perseguire obiettivi di efficienza e di equità.
Questi obiettivi possono essere efficacemente perseguiti anche da un’imposta personale progressiva sul reddito complessivo quando il suo ruolo nel procurare gettito sia relativamente limitato e affiancato da altre forme di prelievo sui consumi e sui patrimoni, e quando il suo campo di applicazione sia piuttosto ristretto. La proposta precedentemente formulata da Fuà prevedeva appunto un’imposta personale progressiva sul reddito (consumato), integrata da una imposta sul patrimonio, e “limitata alla minoranza ricca, (il che) consentirà di darle una formulazione più perfezionata, anche se meno semplice, e di curarne più minuziosamente l’amministrazione” (Fuà 1963, 789). Ma, un’IRPEF divenuta preminente come fonte di gettito, con una progressività stravolta dall’inflazione e concentrata sulla fasce intermedie dei percettori di redditi da lavoro soprattutto dipendente, con ampie zone di erosione e l’impossibilità di sottoporre a controllo lo sterminato numero di soggetti potenziali, non poteva non alimentare e rendere proficua la ricerca di forma più o meno fantasiose di elusione ed evasione, con gravi ricadute sull’efficienza e l’equità del prelievo tributario.

6. Questa crisi (non di gettito, ma di efficienza, equità e semplicità) dell’imposta personale progressiva sul reddito complessivo riflette le difficoltà generali delle moderne imposte sul reddito. Difficoltà connesse al fatto, trascurato anche nei modelli di analisi più complessi e raffinati, che la maggior parte dei redditi non esiste allo stato puro, ma ha un carattere “derivato” o “corretto” secondo regole convenzionali, che lasciano ampi margini alla discrezionalità e alla valutazione soggettiva. Le diverse modalità e possibilità di definizione, misura e accertamento di rediti quantitativamente simili in termini monetari ma di diversa origine evidenziano che i problemi dell’imposta personale progressiva sul reddito complessivo derivano non soltanto dagli importanti aspetti più frequentemente analizzati – relativi alla scelta largamente arbitraria dell’unità impositiva (individuo o unione familiare) e delle correzioni apportate al reddito complessivo (deduzioni) o all’imposta (detrazioni) – ma sono legati soprattutto alle difficoltà di definizione, determinazione e accertamento dei singoli redditi che compongono il reddito complessivo.
Anche l’IRPEF si è così sempre più allontanata dal modello originario che l’aveva ispirata e che, come si è visto, non era mai stato neppur lontanamente attuato nella realtà. Come accaduto in molti altri ordinamenti, alla differenziazione nel trattamento tributario legata ai diversi criteri di definizione, determinazione e accertamento di vari tipi di reddito si è accompagnata la differenziazione dell’incidenza legale del prelievo anche secondo tipologie di contribuenti come le caratteristiche giuridico-organizzative degli operatori.
Di fatto, si è tornati verso strutture tributarie basate su imposte cedolari differenziate per categorie di reddito e con differenziazioni di trattamento anche all’interno di alcune categorie. Ciò riduce la neutralità del sistema, aumenta i costi di gestione e di adempimento riducendo anche la semplicità del sistema e accresce la percezione che sia violato anche il criterio dell’equità orizzontale spingendo verso la ricerca di forme di elusione ed evasione. I sistemi che si sono venuti concretamente configurando sono definiti ibridi o “semi-comprehensive income tax systems” (Brys and Heady 2006). Un riconoscimento formale e legale dei limiti all’applicazione uniforme a tutti i tipi di reddito dei principi di equità orizzontale e verticale è avvenuto con la dual income tax, che limita l’applicazione della progressività ai soli redditi da lavoro. Anche in questo caso i pochi paesi che l’hanno esplicitamente adottata, lo hanno fatto con alcune differenziazioni sia della proporzionalità applicabile ai vari tipi di redditi finanziari (anche per effetto dei diversi criteri di determinazione del “reddito” imponibile nei singoli casi), sia dei redditi da lavoro e pensione da assoggettare a progressività. Anche in questo caso, si è giunti ad applicare forme di “semi-dual income taxation”.
Infine, anche le proposte raramente attuate di flat tax consistono nell’applicazione di un’unica aliquota a una base imponibile allargata per la sostanziale riduzione o abolizione di deduzioni, detrazioni e crediti d’imposta, al netto eventualmente di un minimo imponibile uniforme e indipendente dal tipo e dall’ammontare del reddito. Si rispettano così maggiormente i criteri di semplicità, neutralità e equità orizzontale, ma diviene molto più difficile perseguire obiettivi di gettito e di equità verticale. In pratica, anche le differenziazioni riemergono nella scelta dei criteri per la determinazione dei redditi netti imponibili e delle talvolta numerose forme di tax allowances residue, per cui anche in questo caso si giunge all’applicazione di “semi flat tax”.
Si tratta, in ogni caso, di forme di prelievo molto lontane dal “sistema unitario di tassazione personale progressiva del reddito”, cui “affiancare in un secondo tempo un’imposta – pure personale e progressiva – sul patrimonio”, auspicata, come si è visto, da Fuà (1963). Ciò consentirebbe, pur in presenza di alcune difficoltà applicative chiaramente riconosciute, di “limitare l’imposta sul reddito al solo reddito consumato”, applicandola “alla minoranza ricca”, il che avrebbe consentito di “darle una formulazione più perfezionata, anche se meno semplice, e di curarne più minuziosamente l’amministrazione”. All’imposta personale progressiva sul reddito, con un ruolo più limitato ma più preciso e incisivo, potrebbero accompagnarsi, oltre all’imposta sul patrimonio e a un’imposta generale sugli scambi, imposte specifiche sui consumi e varie tasse ambientali, e in particolare sull’impiego dell’energia, imposte di licenza sullo svolgimento delle professioni e su altre attività, tenendo sempre presente che gli inevitabili “effetti sfavorevoli possono risultare di lieve entità e quindi tollerabili in una certa imposta se essa è applicata in misura moderata e diventare invece insopportabili nel caso che la medesima imposta venga applicata in misura massiccia”.
Accanto a una varietà di forme di prelievo tributario, andrebbero poi stimolate forme di contribuzione volontaria, cercando di riprodurre i meccanismi che avevano determinato “il grande slancio dei contribuenti osservato nella Atene periclea”, e che era stato studiato approfonditamente e portato ad esempio, pur sottolineandone il delicatissimo equilibrio, da Einaudi (1959). In questa linea si pongono alcune proposte formulate da Fuà (|1985), che non manca di sottolinearne gli aspetti paradossali che possono indurre a riderne, senza dimenticare però “che c’è qualcosa di fondamentalmente serio nella linea di pensiero che essi portano all’estremo” e che sembra tuttora trascurato sia negli schemi di analisi sia nelle decisioni politiche in materia delle ancora “troppe tasse sui redditi”.
Antonio Pedone
– Università di Roma “La Sapienza”, antonio.pedone@uniroma1.it.

Riferimenti bibliografici

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Fonte: Accademia dei Lincei - Giornate in ricordo di Giorgio Fuà

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