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Tre mosse per favorire l export

Certamente “l’export non è questione di buona volontà”, come titola sul Corsera di martedi 5 agosto l’articolo dell’ambasciatore Antonio Armellini a proposito del nuovo assetto istituzionale delle politiche per l’internazionalizzazione delle imprese. Diverse analisi e proposte sono largamente condivisibili, ma sollecitano qualche integrazione e precisazione.
D’accordo su tre auspici. Primo, prevenire le inevitabili tentazioni di una catena di comando barocca e dispersa e residue discrasie nella governance della complessa Cabina di regia che vede: due ministeri vigilanti MSE e MAE, con altri tre ministeri (Economia e Finanza, Agricoltura, Turismo), presidenza della Conferenza delle Regioni, Confindustria, Unioncamere, Rete Imprese Italia, Alleanza delle Cooperative, ABI. Per non parlare della mancata fusione tra ICE e Invitalia e l’inevitabile ambiguità nel compito di attrazione degli investimenti esteri.
Secondo, favorire il gioco di squadra pubblico-privato, in particolare coinvolgendo le maggiori imprese multinazionali italiane ed estere che sono capaci di trainare piccole e medie imprese fornitrici di design, componenti e tecnologie essenziali per rafforzare la competitività delle stesse grandi imprese.
Terzo, favorire una crescente “interconnessione” delle imprese con altre imprese e istituzioni esterne (a cominciare dai centri di ricerca e sviluppo), superando il limite dei localismi, magari di cui vantarsi in patria ma impreparati nell’uso del linguaggio globale necessario per comunicare con i mercati (diverse analisi Istat e Banca d’Italia su microdati hanno insistito sull’interconnessione come fattore significativo di aumento della produttività del sistema).
Quattro precisazioni e commenti. Primo, rispetto alla precedente riforma dell’ICE del 1997 già molto è stato fatto per superare antichi timori di “diplomatizzazione dell’ICE”. Quasi ovunque, nei quasi 90 uffici e punti di corrispondenza ICE in 60 paesi, il personale diplomatico e dell’ICE coopera quotidianamente nel rispondere velocemente alle più diverse richieste di problem solving: Ambasciatore e consigliere commerciale per gli aspetti che maggiormente richiedono una advocacy istituzionale, dirigenti e funzionari ICE per i nodi tecnico-commerciali, incluse le numerose e crescenti barriere d’accesso non tariffarie ai mercati più dinamici e difficili. Oggi non parlerei dei due Ministeri “costantemente tesi alla reciproca sopraffazione”!
Secondo, per superare localismi e favorire le interconnessioni, le Associazioni datoriali di settore e le stesse Regioni devono tradurre i numerosi accordi e intese (protocolli formali) con l’ICE in autentica collaborazione per selezionare severamente la qualità delle manifestazioni fieristiche internazionale e italiane di maggior rilievo, e selezionare la partecipazione delle imprese minori. Ne va di mezzo l’immagine-paese di quei settori e comparti e degli stessi territori, così importante per dare vera efficacia di penetrazione commerciale all’estero.
A parte settori particolari come l’agroalimentare e l’artigianato, gli operatori esteri si interessano alla qualità dell’offerta italiana di prodotti e servizi, non di territori, amministrazioni locali e marchi sconosciuti. Di norma, efficacia promozionale e consociativismo clientelare non vanno d’accordo.
Terzo, non mi pare esatto che l’Italia sia rimasta “uno dei pochissimi Paesi in cui il supporto pubblico all’export è gratuito” (Armellini). Almeno per quanto riguarda l’ICE, circa metà dei fondi spesi per servizi promozionali collettivi è coperta da contributi degli utenti ai costi (Rapporto ICE 2013-14, p. 373). Assai minore è la quota privata alle iniziative coperte con fondi del MSE e del sistema delle Camere di Commercio.
Quarto, accanto ai coraggiosi Roadshow intrapresi in Italia dal viceministro Calenda per scovare nuovi 20.000 esportatori stabili (stabili, non occasionali), non va mai dimenticato che più di 195.000 sui 212.000 esportatori censiti dall’Istat fatturano all’estero meno di 2,5 milioni di euro all’anno, spesso esportando saltuariamente su uno-due mercati, contribuendo in tutto a meno del 12 per cento del valore delle esportazioni, mentre il restante 88 per cento è generato da poco più di 16.000 imprese esportatrici, e circa il 70 per cento da meno di 4000 imprese che fatturano 15 milioni o più. Certo le grandi imprese non hanno bisogno del supporto promozionale di ICE e Regioni, ma quanta parte del robusto e dinamico “quarto capitalismo” potrebbe essere potenziato nella sua crescita internazionale se interagisse più efficacemente con le politiche pubbliche?

Fonte: Sole 24 Ore - 21 Agosto 2014

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