La stima del risparmio per i consumatori dalla scissione Eni-Snam, fa sorgere spontanea una domandaTre miliardi l’anno di risparmio per i consumatori italiani. È questa la stima di quanto ha pesato finora sulle bollette del gas il controllo dell’Eni su Snam Rete Gas. Una tassa che domani non ci sarà più. Almeno così promettono i sostenitori della separazione della proprietà della rete dei gasdotti italiani dal gigante petrolifero: un’operazione che dopo quasi dieci anni di false partenze, rinvii e soste sul binario morto, il governo Monti ha deciso di mettere in agenda e condurre in porto. Una rivoluzione che ha già messo in moto mille interessi: quelli delle banche a caccia di un nuovo cliente da finanziare (dal momento che non sarà più l’Eni a trattare i tassi per Snam), quelli degli analisti di Borsa di fronte a una fetta di titoli di un big del mercato in cerca di nuova collocazione, fino ai mille appetiti su pezzi di attività potenzialmente in vendita. Appetito che si sussurra sia venuto per esempio alla municipalizzata milanese A2A sul boccone Italgas, controllata Snam e primo operatore nazionale nella distribuzione del metano (30 per cento del mercato). Ma anche alla Gazprom, il grande fornitore russo di materia prima, che non ha mai visto di buon occhio l’autonomia delle reti di trasmissione dai produttori, ma che farebbe carte false per assicurarsene un pezzo.
Mai, prometteva Paolo Scaroni negli incontri con gli investitori internazionali: dovranno passare “over my dead body”, sul mio cadavere, prima di portarsi via la Snam. Ritenendo il business petrolifero molto rischioso, la trasmissione, con il suo rendimento sicuro (il 7 per cento lordo), costituiva un’ottima ancora. Senza contare il flusso dei dividendi che la Snam gli ha garantito: 2 miliardi e mezzo in dieci anni. Ora il momento è venuto. Così il capo dell’Eni s’è asserragliato in una nuova ridotta dalla quale vendere cara la pelle: massimizzare l’incasso di Snam, che vale in Borsa 13 miliardi e di cui piazzale Mattei controlla il 52,5 per cento, liberandosi contemporaneamente di un fardello di debiti, oltre 11 miliardi, accettati controvoglia per gli investimenti della controllata.
Ma in una faccenda come questa, in cui ballano cifre così sostanziose, non è quello di Scaroni l’unico interesse in campo. C’è anche quello dell’altro operatore di una rete nazionale, quella elettrica, vale a dire Terna, separato dalla casamadre Enel da anni, e diventato protagonista in proprio e desideroso di crescere. Quale migliore occasione per il suo amministratore delegato Flavio Cattaneo di proporsi come capofila di un supergruppo delle reti energetiche, che veda Terna unita con Snam? Last but not least il governo, che punta a separare la società figlia dalla società madre senza perdere il controllo pubblico su un settore strategico. Ma senza spendere troppo, e senza ferire eccessivamente il campione petrolifero nazionale.
Mentre la partita del potere si sta giocando, ci si chiede quale sia il beneficio per i consumatori. Detto in altri termini: con la trasmissione del gas fuori dall’Eni, il prezzo del gas scenderà?
«Finalmente la soluzione buona e giusta per l’Italia e per l’Europa», gioisce Alessandro Ortis, ex presidente dell’Autorità elettrica, che quasi in solitaria ha sostenuto a lungo la necessità delle separazione proprietaria: «Peccato che il ritardo sia costato caro ai consumatori, almeno 3-5 centesimi a metrocubo di gas che si aggiungevano al prezzo del metano importato, quindi 3 miliardi all’anno. Un extra costo dovuto all’inefficienza del mercato causata dalla mancanza di liberalizzazioni e dall’impossibilità di sviluppare infrastrutture competitive». Questi 3 miliardi sono entrati nelle tasche degli importatori di gas, tra i quali Eni è il più importante, puntualmente, ogni anno. Cosa è necessario per annullare questa sorta di manomorta? Più infrastrutture, dice Ortis: rigassificatori, stoccaggi e reti indipendenti connesse con quelle dell’Europa.
Non tutti la pensano così. «Il prezzo del gas non calerà», sentenzia Leonardo Maugeri, ex direttore delle strategie dell’Eni, oggi docente ad Harvard. «Pensare che la colpa degli alti prezzi del gas in Italia sia di Snam è un errore: i prezzi sono decisi fuori dall’Italia e dall’Europa: li fanno in Russia e in Algeria». E aggiunge. «Il prezzo potrà calare solo se ci sarà sovrabbondanza di offerta da più paesi, solo se c’è concorrenza tra fornitori». Non bastano dunque i tubi.
Siamo condannati allora a tenerci i prezzi più salati del continente? Oggi, per esempio, il consumatore residenziale italiano paga il gas 86 centesimi a metrocubo. Quanto è costato alla frontiera? Meno della metà: 35-40 centesimi; a cui si aggiungono poi una trentina di centesimi di tasse e una ventina per la distribuzione. All’origine, nei giacimenti della Gazprom, costa tre centesimi a metrocubo. Com’è evidente, si tratta di un filiera con molti passaggi ricchissimi. Prosciugare una simile bonanza non è facile. «Tra il venditore di gas e noi resta un intermediario molto forte che è l’Eni», osserva Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia: «Sottrargli il trasporto non garantisce più competitività. In un mondo di giganti energetici, spezzettare una società come l’Eni non è una grande idea».
Da Snam promettono che faranno la loro parte per migliorare il sistema. Hanno investito 7 miliardi dal 2002 al 2010 e altri piani di sviluppo sono in cantiere, per esempio quello per portare gli stoccaggi dagli attuali 10 miliardi di metricubi a 14. Certo, il controllo della materia prima è sempre un fattore chiave e su questo gli uomini della rete non hanno alcuna presa, ma offrire nuove infrastrutture per creare nuove opportunità di rifornimento, questo sì. E qui viene al pettine un primo nodo. L’Eni, pur avendo già venduto i gasdotti che possedeva in Europa per volere della Commissione di Bruxelles, mantiene sempre i diritti di passaggio nei tubi, in virtù di accordi pluriennali già siglati. Contratti che conviene onorare perché sono del tipo”take or pay”: se non ritiri il quantitativo pattuito, paghi lo stesso, dunque è meglio ritirare comunque. E quello che accade oggi, dato che con la crisi i consumi sono scesi: 80 miliardi di metri cubi sono disponibili, ma solo una settantina si consumano davvero, dieci sono inutilizzati. «Eppure nessuno ha potuto obbligare l’Eni a rimettere sul mercato la capacità inutilizzata», osserva Giuseppe Artizzu, managing director di Cautha, specialista in energia sostenibile. In altri termini: sui tubi per l’import, non c’è spazio per far passare altro gas, magari comprato a buon prezzo nei momenti di bassa.
L’unica strada per abbassare i prezzi, insomma, è creare “overcapacity”, cioè capacità in eccesso. Ma, dicono a Snam, questo si può fare solo se c’è un collegamento con l’Europa. Nessuno investirà in nuovi stoccaggi (così utili per mattere da parte il gas quando costa meno) o nuovi rigassificatori, in un mercato “chiuso”, e per di più in una fase di consumi calanti. Quando arriverà il gas del Galsi (il nuovo gasdotto dall’Algeria via Sardegna), dove andrà il prodotto?, si chiedono alla Snam. Quanto ai rigassificatori, la British Gas ha appena cancellato quello progettato a Brindisi e forse non solo per le lungaggini procedurali: i numerosi rigassificatori spagnoli, tanto invidiati e indicati a modello, sono rimasti al minimo questo inverno proprio per mancanza di sbocchi commerciali, inquanto il paese iberico non ha connessioni con il Nordeuropa.
Dunque, più dell’import, è l’export che ci può dare la leva per abbassare i prezzi, attraverso un’attività di trading. O, meglio ancora, per puntare a trasformare la penisola in un grande hub di transito. Il primo seme è stato già lanciato: Snam ha fatto un accordo con la società belga Fluxys per acquistare la quota Eni nel gasdotto sottomarino tra Regno Unito e Belgio. Ma le sue ambizioni sono di creare altri 13 miliardi di metricubi di capacità dal 2015 per esportare gas che attraversi i suoi tubi, da Sud a Nord, pagando la tariffa di passaggio, che è quella con cui oggi fa i suoi 3,5 miliardi di curo di ricavi e 1,1 miliardi di utile netto.
Visto che questo sembra essere il destino a cui punta Snam, la questione di come accompagnarla verso una vita autonoma – e quindi a chi attribuirne il controllo, oggi di Eni – ne porta con sé subito un’altra: è davvero necessario tenerla sotto un ombrello pubblico? Al Ministero dello Sviluppo Economico gli uomini di Corrado Passera dicono di sì. Ma un economista come Guido Tabellini ha lanciato il sasso qualche giorno fa, dalle colonne del “Sole24Ore”, affermando: «Una società interamente privata potrebbe forse avere maggiori opportunità di trasformarsi in un gestore di infrastrutture europee», e proprio per la natura senza rischi del suo business regolamentato non le sarebbe difficile trovare investitori disposti a metterci i capitali. E i 7 miliardi che Eni incasserebbe vendendo sul mercato la sua quota? Se non si vogliono proprio lasciare nelle mani di Scaroni, dice il rettore della Bocconi, potrebbero trasformarsi in un dividendo speciale da versare alle casse dello Stato e agli altri azionisti.
Ma a questo punto, il ragionamento di Tabellini fa un altro salto in avanti, e incontra quello di Carlo Stagnarci editorialista del “Chicago Blog” e direttore ricerche dell’Istituto Bruno Leoni: «Senza Snam, c’è un motivo per cui Eni debba restare pubblica?». Insomma, in quanto compagnia petrolifera come tante altre, non sarebbe il caso di privatizzarla definitivamente?
Tre miliardi dal gas
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