Le Considerazioni finali del nuovo governatore di Bankitalia Mario Draghi sono formalmente equidistanti dai due schieramenti politici, come è giusto che sia. Ma sono anche oneste nel descrivere una situazione che, se si trascina nodi strutturali che risalgono indietro nel tempo, è nettamente peggiorata negli ultimi anni. Draghi mette in evidenza una serie di problemi, quasi tutti largamente noti eppure mai affrontati, da quelli della burocrazia a quelli della giustizia civile a quelli del sistema formativo.
Le linee di soluzione che suggerisce sono in gran parte condivisibili (forse anche perché spesso sono appena accennate: il diavolo si nasconde sempre nei dettagli). Ci sono almeno due punti, però, che lasciano qualche dubbio.
Il primo è quando parla dello “scarso peso” degli investitori istituzionali. “La loro voce, altrove forte e pressante, è da noi flebile. La loro presenza contribuisce al vaglio della qualità della conduzione delle imprese, alla tutela delle minoranze, alla corretta gestione dei conflitti d’interesse ”. Questo è senz’altro vero, ma il governatore si ferma qui, sembra attribuire questa “voce flebile” solo al problema delle dimensioni. Domanda: non dipenderà anche – forse soprattutto – dal fatto che i nostri investitori istituzionali, che sono poi essenzialmente i Fondi comuni, fanno capo per la quasi totalità alle banche, di cui le aziende quotate sono i clienti più importanti? I nostri investitori istituzionali sono, di fatto, a sovranità limitata, se non altro nei confronti della “casa madre”, il gruppo bancario o finanziario che li possiede. La crescita dimensionale scioglierebbe questo problema?
Il secondo punto riguarda i Fondi pensione. Secondo Draghi dovranno fortemente svilupparsi, sia per integrare il grado di copertura della previdenza pubblica, destinato a ridursi dopo le riforme, sia per far crescere il nostro sistema finanziario, che è una delle condizioni indispensabili alla competitività dell’economia. In questo quadro, non c’è dubbio, secondo il governatore, che vi debba confluire il Tfr, anche perché “nel periodo lungo il rendimento delle azioni ha largamente superato quello delle obbligazioni e la crescita del reddito nominale”. Domanda: è così scontato che la crescita dei Fondi pensione genererà un circolo virtuoso per cui il sistema finanziario italiano sarà più capace di finanziare lo sviluppo dell’economia italiana? Attualmente risulta che la quota di investimenti dei Fondi pensione in azioni italiane sia intorno al 2% del loro patrimonio complessivo. Il che è corretto, perché è più o meno quello il peso della Borsa italiana rispetto alla capitalizzazione mondiale. Questo, però, significa che il nostro risparmio previdenziale (quello del Fondi pensione) sta finanziando prevalentemente le economie americana, giapponese e inglese, cioè dei tre paesi con le maggiori capitalizzazioni di Borsa.
Ma i Fondi pensione, afferma Draghi, rendono più del Tfr e più dei contributi Inps, che sono appunto indicizzati alla crescita del reddito nominale. Se è così, vale comunque la pena. Domanda: siamo davvero sicuri che sia così? Molte analisi hanno ribadito che, nel lungo periodo, il rendimento delle azioni è vincente. Ma quanto deve essere lungo questo periodo? Le analisi che di solito vengono citate prendono in considerazione un secolo, o comunque non meno di 50 anni. Ma la carriera contributiva di un lavoratore non dura tanto. La moda dell’anzianità contributiva dei pensionati Inps è intorno ai 25 anni e non è affatto certo che in futuro possa aumentare, vista anche la crescita della probabilità di discontinuità nell’occupazione. Quante analisi ci sono che abbiano preso in esame periodi di 25 anni (o diciamo anche 30), con diversi punti di partenza e di arrivo? I cicli di Borsa non sono ininfluenti nel determinare il risultato finale.
E non sono ininfluenti nemmeno i costi. Un’analisi corretta dovrebbe considerare che la rivalutazione sul contributo Inps è sulla cifra netta, mentre il contributo al Fondo pensione è al lordo delle commissioni, spesso relativamente elevate, il che ha un peso non indifferente sul risultato finale. Infine, le medie fatte sugli indici non tengono conto che i Fondi hanno dei gestori, e non tutti sono così bravi da tenere il passo del benchmark.
Detto di Draghi – le cui Considerazioni, giova ripeterlo, risultano nel complesso apprezzabili – non si può non sottolineare che il risultato delle elezioni amministrative deve aver fatto versare parecchie lacrime di caimano. La maggioranza ne è uscita rafforzata e si spera che Berlusconi ora la smetta con la sua guerriglia sulla “vittoria tradita”. Ma le ordalie non sono ancora finite: tra meno di un mese c’è il referendum confermativo della riforma costituzionale – o “controriforma”, come giustamente la definisce Elena Paciotti nell’articolo che E&L propone – che è un appuntamento di importanza fondamentale. Non solo per la sua inevitabile influenza sul piano politico: è fin troppo ovvio che una vittoria dei “sì” ridarebbe smalto al centro destra, che potrebbe invece definitivamente “sfarinarsi” se invece prevarranno i “no”.
Ma l’aspetto politico è persino secondario. Come è emerso in un convegno di costituzionalisti, di cui la Paciotti dà conto, non è tanto la devolution il problema, è la stessa divisione dei poteri, pilastro delle democrazie moderne, ad essere in pericolo. E comunque, come sottolinea il contributo di Stefano Ceccanti, le norme sono mal fatte persino rispetto agli obiettivi che si propongono.
Lo strumento del referendum è stato inflazionato da un uso poco assennato e negli ultimi tempi ha risvegliato sempre meno interesse. Ma qui la posta è davvero importante e bisogna che se ne diffonda la coscienza.
Fonte: Eguaglianza & Libertà del 1 giugno 2006