ISTINTI nazionali contro spiriti animali. L’immagine del Financial Times rende bene l’idea della guerra sull’energia e la finanza che scuote l’Europa. Se la destra italiana ha una colpa, è quella aver espresso molto male i primi, e di non aver mai saputo incarnare i secondi. Né strategicamente dirigista (sul modello francese), né liberamente mercatista (sul modello inglese), come ha scritto con la consueta autorevolezza Alessandro Penati su queste colonne. Ma adesso che la guerra è scoppiata, tanto vale combatterla. Adesso che, come ripete Giulio Tremonti, “si rischia davvero una deriva da agosto 1914, quando nessuno voleva il conflitto, ma poi alla fine il conflitto c’è stato”, tanto vale prenderne atto, e mettere in campo subito la controffensiva.
Per il ministro dell’Economia la controffensiva si muove su due piani paralleli. Il primo è di natura politico-diplomatica, e punta a sollecitare un’iniziativa formale dell’Unione europea contro la muraglia difensiva eretta dal governo francese per fermare la scalata dell’Enel sulla Suez. Questo spiega la partenza immediata del ministro, che oggi sarà a Bruxelles per incontrare la commissaria alla concorrenza Neelie Kroes, e domani vedrà il commissario al mercato interno Charles McCreevy. Tremonti spera siano di buon auspicio le parole pronunciate ieri da quest’ultimo: “La mossa del premier de Villepin – ha osservato McCreevy – se non viola le norme Ue, va contro lo spirito del mercato europeo”. “La Commissione – aggiunge adesso il ministro – ha il dovere di esaminare seriamente quello che è accaduto. Ne va della sua funzione, e della sua stessa ragion d’essere”.
Ma in tutta onestà, al momento la forza cogente di Bruxelles è modesta. Sollecitare la Commissione è una scelta rituale e obbligata. Berlusconi può tuonare finché vuole il suo tardivo “l’Europa deve intervenire”, dopo che non ha mancato una sola occasione per depotenziarla e delegittimarla.
Il risultato è che oggi l’Europa ha dimenticato Maastricht e ha smarrito lo spirito del ’99: è una pattuglia di stati che si muovono in ordine sparso, fanno fatica a riconoscersi nella debole squadra di Barroso e ragionano sempre più in termini di “interesse nazionale”. Tremonti ne è consapevole. Denuncia da mesi la crisi dell’Europa. Lo fa da una posizione di destra populista e non liberista, contestando il trinomio “mercato unico, pensiero unico, errore unico”. Per questo, oggi, di fronte all’ovvia azione “sciovinista” dei cugini d’Oltralpe è pronto a opporre una reazione uguale e contraria.
Al Tesoro, infatti, è già pronta una bozza di decreto legge, che potrebbe essere approvato addirittura entro la settimana, e che è stato sottoposto all’esame della presidenza della Repubblica, per valutarne i profili tecnici e i requisiti di necessità e di urgenza. È il secondo piano della controffensiva italiana, quello politico-legislativo. Un provvedimento urgente, che ripaghi i francesi con la stessa moneta con cui Palazzo Matignon ha risposto al progetto di acquisizione dell’Enel, propiziando e benedicendo ufficialmente la fusione tra Suez e Gaz de France.
Una ritorsione? A Via XX settembre si evitano accuratamente, appunto, toni da “agosto 1914”. Si preferisce parlare di “un decreto legge che si ispira al principio della piena reciprocità, e mira a introdurlo in modo organico nella disciplina dei rapporti tra imprese italiane e imprese straniere”. Il testo allo studio del ministro, che oggi ne farà cenno anche ai membri della Commissione europea, prevede una doppia versione.
C’è una versione A, che Tremonti, ragionando con il suo staff tecnico, ha definito “più hard”. Di fatto, si tratta di un articolo unico, secondo il quale “in caso di offerta pubblica d’acquisto la società emittente (cioè quella scalata), nei confronti della società offerente (cioè quella che scala) o di coloro che effettuano l’Opa, ha diritto di scegliere, in quanto applicabile, o la legge italiana o la legge equivalente di un Paese straniero”.
Attenzione: non necessariamente la legge del Paese al quale appartiene la società che lancia l’Opa, ma la legge vigente in qualunque altro Paese dell’Unione, purché sia più conveniente per la società scalata. L’esempio accademico, che si fa al Tesoro, è che se tra un mese il gruppo Suez sbarca in Italia per fare shopping nel settore energetico, l’Italia può chiedere l’applicazione della legge francese. Ma non solo: la stessa legge francese (che al momento è la più restrittiva d’Europa in materia di offerte pubbliche d’acquisto) può essere invocata anche per respingere il takeover di un colosso olandese o tedesco. Un decreto così congegnato è l’arma fine di mondo. Altro che “agosto 1914”: siamo già al 1938.
Per questo, Tremonti lavora più alacremente a un’ipotesi B. Un decreto legge più articolato, che viene considerato più soft, cioè “più ortodosso”, che ricalca quello che, il 24 maggio 2001, fu varato dall’allora ministro delle Attività Produttive Enrico Letta, come uno degli ultimi atti del governo dell’Ulivo, per fermare l’attacco della francese Edf sul gruppo italiano Montedison.
Quel provvedimento stabiliva la sterilizzazione dei diritti di voto per “i soggetti controllati direttamente o indirettamente da uno Stato o da altra amministrazione pubblica, titolari nel proprio mercato nazionale, di una posizione dominante,… che acquisiscano direttamente o indirettamente, anche mediante Opv, partecipazioni superiori al 2% nel capitale sociale di società operanti nei settori elettrico e del gas naturale”. Quel provvedimento fu sbloccato dal governo Berlusconi, con il chiaro ma illusorio obiettivo di negoziare successivamente con Parigi qualche “scambio” industriale utile anche per l’Italia.
Ora Tremonti, con la seconda versione del testo, punta a riproporre quel decreto, ma con una variante non trascurabile: “può essere impedito l’esercizio di voto alle partecipazioni che superano il 5%”. La soglia di tolleranza viene dunque elevata. Ma il risultato è lo stesso: la differenziazione dei diritti di voto, che nel sistema della corporate governance consente la tutela del controllo societario attraverso la difesa cosiddetta “assembleare” (e alternativa a quella definita “manageriale”).
Tremonti punta sul consenso che la reintroduzione di una norma del genere potrebbe ottenere anche presso l’opposizione, dalla quale cinque anni fa partì l’iniziativa legislativa, poi sfociata in un provvedimento bipartisan, approvato poco prima dell’insediamento del governo della Casa delle Libertà. Proprio allora, alla vigilia del varo, proprio Letta chiamò Tremonti, per illustrargli l’iniziativa e ottenere un via libera. Oggi lo schema potrebbe ripetersi, nonostante il durissimo attacco mosso da Prodi contro la miopia strategica di Berlusconi, e contro la decisione insensata di sacrificare un commissario europeo di peso indiscusso e di prestigio indiscutibile come Mario Monti, per trovare una poltrona a Rocco Buttiglione. Non è detto che l’operazione riesca. Eppure questo, sia pure alla vigilia delle elezioni, sarebbe il terreno ideale per un’iniziativa comune e condivisa.
In queste condizioni, dopo la deriva “rovinista” di quest’ultima legislatura e senza lo straccio di una politica industriale, il declino è inevitabile. E non basta a evitarlo l’euroretorica verso un’Unione che non è più quella di dieci anni fa. Basta scorrere i numeri dell’ultimo saggio edito dal Mulino, “Proprietà e controllo delle imprese in Italia”, per capire che il “piccolo mondo antico” in cui credevamo di crescere non esiste più da un pezzo. Quelli registrati nell’ultimo decennio sono i tassi più bassi dell’intera storia dell’Italia unita. L’export italiano è sceso al 2,9% sul commercio mondiale, la perdita più marcata nell’area del G-7. L’industria italiana è ridotta ai minimi termini: su un totale generale di 4 milioni 49 mila imprese esistenti, ben 2 milioni 376 mila hanno un solo addetto, e solo 548 hanno più di mille addetti. Come dire: la grande industria non esiste quasi più. Un altro po’ di tempo buttato via a litigare su Adam Smith o su Colbert, e in questa povera Italia non resterà più niente da salvare.
Fonte: La Repubblica del 28 febbraio 2006