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Tra l’Europa e l’Italia un vincolo preciso

Il vincolo estero è stato sempre presente nella nostra economia. Per restare anche solo al dopoguerra, dopo l’inizio dell’integrazione europea, con l’adesione allo Sme (il Sistema monetario europeo) del 1987 il vincolo del tasso di cambio veniva assunto come meccanismo di disciplina atto a promuovere la disinflazione e la convergenza macroeconomica nei Paesi membri inclini all’inflazione.
Fu poi la volta del trattato di Maastricht firmato nel 1992 da Guido Carli, e – dopo la svalutazione di quello stesso anno – dell’accordo con Van Miert firmato da Beniamino Andreatta quale ministro degli Esteri, e infine l’entrata nell’euro.
Tuttavia, c’è una fondamentale differenza tra quelle storie e la vicenda attuale, quella iniziata con la lettera Trichet-Draghi e “chiusa” giovedì scorso con la sottoscrizione degli impegni da parte del presidente del Consiglio. In passato il rapporto Italia-estero era, per così dire, unidirezionale: consisteva in vincoli posti da Stati e monete estere al nostro Paese e alla lira. Invece, questa volta il rapporto è per così dire bi-direzionale: accanto alla richiesta all’Italia di adottare riforme che mettano a posto casa nostra, c’è una richiesta che va in senso opposto, agli altri Paesi dell’Eurozona perché attuino riforme alla costruzione dell’euro.
E come l’Italia è oggetto di pressante attenzione per la dimensione del suo debito pubblico, così l’Italia è il Paese che più di altri rende evidente l’entità delle manutenzioni di cui ha bisogno l’edificio dell’euro. Infatti, nei riguardi di chi fa conti falsi, si è legittimati a intervenire con durezza, e per provvedere ai problemi causati da chi non è grande si può (rectius, si sarebbe potuto) intervenire con facilità. Invece l’Italia, grande e formalmente non in violazione degli accordi, diventa il banco di prova per saggiare l’adeguatezza delle misure che vengono prese a livello europeo.
Con questo non si vuole affatto “chiedere uno sconto”: le riforme che ci vengono ora perentoriamente richieste sono quelle per cui da anni, in alcuni casi da decenni, si batte la parte più avvertita del Paese. Men che mai vuole essere giustificazione per le recenti esternazioni del premier sulla moneta comune. E neppure lamentare gli effetti discriminanti che le misure imposte dall’Eba per il nuovo stress test avrebbero per le nostre banche. Vuol solo ricordare che, se il nostro debito pubblico è sotto attacco, è anche perché le istituzioni europee non hanno gli strumenti per sopperire alla crisi di liquidità di un suo membro, per non parlare di una crisi di insolvenza.
Ci sono le critiche tecniche alle misure adottate. C’è l’illusione che «qualche alchimia finanziaria possa moltiplicare magicamente 300 miliardi» (Roberto Perotti, sul Sole 24 Ore del 28 ottobre); c’è il rischio di fare del fondo salva-Stati una collateralised debt obligation, cioè proprio lo strumento che ha prodotto la bolla del credito; c’è il problema delle banche, come ricapitalizzarle e quali norme imporre. C’è la constatazione che l’euro, che ha la Banca centrale (per ora) più indipendente di tutte, manca di un prestatore di ultima istanza.
E c’è il problema politico: l’Eurozona, per come si sono messe le cose, per funzionare dovrebbe diventare un’unione fiscale, e questo è politicamente non accettabile. Una costituzione europea che chiedeva assai di meno è stata bocciata dai referendum; in Germania tutte le decisioni che comportano un aumento del debito tedesco devono essere approvate dal Bundestag a maggioranza assoluta. Il mercato finanziario europeo comprende 27 Stati, non solo 17: limitazioni della sovranità che risolvano problemi a livello euro potrebbero crearne di dirompenti a livello Unione. Quando le prescrizioni sono dettagliate e precise, quando si mandano funzionari europei a sorvegliare dall’interno il funzionamento dei ministeri, quando si esigono cambiamenti nella Carta costituzionale di Stati membri, quando non si va distanti dall’attendersi dalla massima istituzione di un Paese iniziative non conformi alla sua natura e che travalicano le sue prerogative, è evidente che ci si avvicina al confine della legittimità democratica: perché, alla fine, sono sempre e solo i rappresentati eletti che rispondono degli atti di governo e che hanno il potere di farli rispettare, garantendo, se necessario, l’ordine pubblico.
Simmetria nella necessità di riforme, simmetria nella difficoltà di attuarle: la soluzione dei problemi strutturali dell’euro, e l’attuazione delle riforme in Italia, sono entrambi problemi politici. Come sono chiari i vincoli che rendono difficile ai governi dell’Eurozona prendere decisioni tempestive e adeguate, così alle autorità europee sarà chiaro che gli accordi sottoscritti dal presidente italiano pro tempore riguardano in realtà i governi futuri. Per noi, quindi, è sterile stare a discutere sui termini di quegli accordi: si tratta di esprimere forze e leader politici che sappiano come attuarli.

Fonte: Sole 24 Ore del 1 novembre 2011

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