di Bruno Costi
Quando l’epidemia di Coronavirus svela che molti contagi dipendono dalla mancanza di mascherine protettive e il panico nella sanità italiana nasce dalla mancanza di ventilatori polmonari salvavita, può essere utile fare un salto indietro nel tempo di tre secoli e ricordare il figlio di un esattore scozzese delle dogane che diventerà il padre dell’economia classica.
Il ragazzo si chiama Adam Smith e, orfano di padre, viene cresciuto dalla mamma con solidi principi morali, mostrando subito un forte interesse per quelli che oggi definiremmo i “massimi sistemi”. Un esempio? ha poco più meno di trent’anni ma così giovane già riflette sulla Teoria dei sentimenti morali e poi dell’Origine della ricchezza delle nazioni e ne discute, con un certo Voltaire scrivendone con un tale di nome David Hume.
Vorrebbe essere un filosofo ma per i casi strani della vita inventa una teoria economica destinata a fare storia: quella della “divisione internazionale del lavoro” e dei “vantaggi assoluti”, in base alla quale ogni paese nel mondo deve produrre ciò che sa fare meglio ed al prezzo più basso e tutti gli altri paesi glielo acquisteranno.
Ma non passano che pochi decenni e un altro suddito di Sua Maestà, questa volta figlio di un agente di cambio londinese che respira denaro e commerci fin da quando è in fasce, lo confuta. Si chiama David Ricardo e dice che no, ogni Paese non deve produrre solo ciò che sa fare meglio, ma ciò che costa meno in termini relativi; è la teoria dei “vantaggi comparati”.
Smith e Ricardo sono i padri nobili di quella che oggi definiamo la Globalizzazione. Ebbene, tra “vantaggi assoluti” e “ vantaggi comparati”, sono proprio le loro teorie, esaltate dalla globalizzazione dei commerci e dagli accordi per ridurre i dazi, che hanno fatto pensare come oggi non fosse più necessario per un Paese produrre in casa tutto ciò che serve per far sopravvivere i suoi cittadini.
Ognuno doveva fare ciò che sapeva fare meglio ed a prezzo più basso: i Paesi invia di sviluppo le produzioni a basso valore aggiunto o povere di tecnologia; i Paesi industrializzati i prodotti tecnologicamente avanzati e a più elevato valore aggiunto. E se questi ultimi avevano aziende nella parte bassa della scala del valore, potevano essere cedute sena troppi compimenti.
La delocalizzazione, ovvero andare a produrre nei Paesi dove burocrazia, costo del lavoro e tutele sociali sono più bassi, è stato negli ultimi tre decenni il paradigma obbligato per chi voleva conquistare sul mercato vantaggi competitivi.
Poi però è arrivato il virus e ci si sta rendendo conto che nel “mondo di prima”, la Cina è il più grande produttore di paracetamolo, il principio attivo di quella Tachipirina, che tiene bassa la febbre ai malati di polmonite interstiziale indotta dal virus; l’India, il Vietnam e la Turchia del sovranista Erdogan sono i principali produttori di mascherine che proteggono dal contagio; Stati Uniti e Germania da soli hanno la metà delle aziende (5 su 10) che, uniche al mondo, producono i ventilatori polmonari essenziali per salvare i malati dall’asfissia.
Com’è possibile che settori così tecnologicamente banali ma così importanti per la sopravvivenza delle persone siano concentrati in così poche mani e che nessuna di essi sia italiana? E che l’Occidente si scopra improvvisamente così vulnerabile anche senza difese dalle insidie del 5G cinese o delle intrusioni informatiche russe? Non è forse la vita, l’obiettivo strategico principale di ogni Stato?
Il fatto sorprendente è che riflessioni su quali debbano essere i settori strategici dell’industria ai quali un Paese non può rinunciare sono state fatte ormai da molti anni, ed in Italia anche aggiornate appena pochi mesi fa, nel novembre del 2019 potenziando la Golden Power.
La preoccupazione era impedire a Fondi di investimento sovrani, cioè riconducibili a Stati come la Cina, l’Arabia Saudita, la Russia, il Qatar, di investire in Occidente per acquisire aziende o infrastrutture in base a logiche di egemonia politica e non di competizione economica.
E così, fin da 2012, l’Unione Europea e più recentemente l’Italia hanno introdotto legislazioni che consentono di impedire che ciò avvenga in settori strategici.
La sorpresa è constatare che i settori strategici indicati nella recente relazione del DIS, il Dipartimento per la sicurezza Interna, sono il 5G e le Telecomunicazioni, l’Aerospazio, l’Energia, i Trasporti, i Porti, l’Intelligenza Artificiale, la Robotica, le Biotecnologie e i media. Cioè tutto ciò che serve a difendere la sovranità ma non ciò che oggi può salvarci la vita. Nel “dopoguerra “al virus, sarà un altro punto da mettere in agenda.
(www.clubeconomia.it, 24 marzo 2020)
Tra i settori strategici manca l’Industria della Vita_24.3.2020
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