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Toyota, la vittoria del “giovane” Akio punta sulla qualita’, tornano i record

HA SOLO 53 ANNI QUANDO NEL 2009 PRENDE IL TIMONE DEL GRUPPO IN CRISI DI VENDITE E CON L’IMMAGINE APPANNATA DA TROPPI INCIDENTI E DIFETTI. BLOCCA I NUOVI IMPIANTI, SPIEGA CHE I VOLUMI NON SONO LA PRIORITÀ. STA PER DIVENTARE IL PRIMO A PRODURRE 10 MILIONI DI AUTO IN UN ANNO.
Nella storia nessun gruppo al mondo ha mai prodotto dieci milioni di auto in dodici mesi. Potrebbe accadere in questo 2013, al gruppo Toyota. Né, nella storia, era accaduto che un gruppo automobilistico realizzasse un margine di 25 miliardi di dollari. Potrebbe accadere, sempre alla Toyota, nell’anno fiscale che chiude il 31 marzo 2014: le previsioni degli analisti arrivano a 24,7 miliardi, mancano 300 milioni alla meta, più o meno quanto porta nel bilancio del gruppo ogni yen in più nel cambio con il dollaro. M a alla Toyota non si festeggia, perché non è questo l’obiettivo. L’obiettivo, il presidente Akio Toyoda lo ripete dal 23 giugno del 2009, giorno del suo insediamento, è fare macchine sempre migliori. I numeri, delle vendite, del fatturato e dei profitti, sono il risultato. Se un discorso del genere lo facesse un ceo americano o europeo penseremmo, a ragione, che ci sta prendendo per i fondelli. Se lo fa un ceo giapponese al massimo possiamo pensare che sia ingenuo, e Akio Toyoda non lo è. Affatto. E’ un visionario, come all’industria giapponese mancavano dalla scomparsa di Shoichiro Honda nel ’91 e di Akio Morita, padre della Sony, nel 1999. Nel 2009, quando diventò presidente, Akio Toyoda aveva 53 anni, troppo pochi. Alla Toyota si va avanti per merito ma il merito deve avere pazienza, prima dei sessanta a quelle posizioni non si arriva. E non ci sarebbe arrivato neanche Akio, se l’azienda non fosse entrata in una delle crisi più acute della
sua storia, e se Akio non si fosse chiamato Toyoda e non fosse il nipote del fondatore Kiichiro. In teoria non era pronto. Aveva studiato in Giappone e negli Stati Uniti, aveva lavorato nel gruppo che porta il nome della famiglia per 24 anni, negli Stati Uniti, in Cina, in Giappone, con compiti di crescente responsabilità. Ma era di gran lunga il più giovane dei vice presidenti e dell’intero board. Sarebbe diventato presidente, certo, come suo nonno il fondatore, suo zio Eiji, suo padre Shoichiro, ma a sessant’anni o un po’ di più, se non fosse stato per la maledetta crisi scatenata dalla Lehmann Brothers e per il primo rosso, di 4,2 miliardi di dollari, nella storia dell’azienda. Un trauma, anticipatore di altri che di lì a pochi mesi avrebbero minato il punto di forza del gruppo nel mondo: la qualità reale e percepita delle sue automobili. In un intervento al Foreign Correspondent Club of Japan, citando una teoria che divide in cinque fasi il ciclo di ogni azienda, Akio disse che la Toyota si trovava nella penultima, non la morte ma la strada che porta alla morte. Alla fine di agosto del 2009 arriva una notizia che è quasi una conferma: su un’autostrada californiana una Lexus, il marchio di lusso del gruppo, corre senza riuscire a fermarsi, i freni sono bloccati, muoiono quattro persone. E’ il crollo del mito, le ultime parole al cellulare di uno dei passeggeri di quella Lexus prima dello schianto passano e ripassano su tutti i telegiornali d’America e del mondo, la Toyota è costretta a richiamare nei mesi e negli anni successivi 10 milioni di auto di vari modelli per difetti rilevanti. Akio Toyoda è chiamato a testimoniare davanti al Congresso di Washington: «Negli ultimi anni (precedenti al 2009 e al suo arrivo al vertice, ndr) la Toyota è cresciuta rapidamente. Francamente io penso che il ritmo sia stato troppo veloce. Le priorità del nostro gruppo sono state sempre le seguenti: sicurezza, qualità, volumi, in questo ordine. Queste priorità si sono confuse e noi non siamo stati capaci di fermarci, di pensare, di migliorare i nostri prodotti come eravamo stati capaci di fare in passato… Abbiamo perseguito la crescita oltre la velocità alla quale eravamo capaci di far crescere la nostra gente e la nostra organizzazione. Sono profondamente addolorato per le conseguenze sulla sicurezza e per gli incidenti occorsi…. C’è il mio nome su ciascuna di queste macchine, avete il mio personale impegno che Toyota lavorerà vigorosamente e incessantemente per riconquistare la fiducia dei nostri clienti». La leadership di Akio Toyoda nasce quel 23 febbraio del 2010 a Washington, otto mesi dopo la sua nomina a presidente. Nei mesi successivi elabora la Visione Globale del gruppo, il cui motto è “auto sempre migliori”, fissa i principi operativi, la riduzione dei livelli decisionali e il loro decentramento, predica “l’andare a vedere e toccare con mano” perché le valutazioni e le scelte non possono essere fatte da una burocrazia aziendale lontana dai clienti e dai luoghi di produzione, crea meccanismi di ascolto dei dirigenti operativi e dei clienti, fissa l’obiettivo della sostenibilità, che si misura in una redditività costante del 5 per cento sul fatturato coniugata con una flessibilità che consenta di ottenerla anche in casi di crisi esogene. Coerentemente decide di bloccare gli investimenti in nuovi impianti per tre anni. L’obiettivo non è più la quantità. Dalla “Visione” fa discendere una radicale riorganizzazione del gruppo in quattro grandi aree e un altrettanto radicale turn over di manager, riduce il numero dei consiglieri di amministrazione da 27 a 11 e per la prima volta fa entrare tre indipendenti, due giapponesi e un americano, Mark Hogan ex vice presidente della General Motors. Attraversa il dramma di Fukushima, che blocca per sei mesi la produzione e le successive inondazioni in Thailandia, uno degli hub produttivi del gruppo, che costano alla Toyota nel 2011 un paio di milioni di auto prodotte in meno e la perdita della leadership mondiale a favore di Gm e Volkswagen (leadership che riconquista nel 2012 e confermerà nel 2013). Oggi è un’altra Toyota, la cura di Akio l’ha trasformata e l’ha preparata ad un’altra fase, il cui simbolo è la Toyota New Global Architecture, una innovazione organizzativa e progettuale che non sarà rivoluzionaria come il Kaizen, la Lean Production e il Just in Time, con cui la Toyota ha cambiato l’organizzazione della manifattura mondiale, ma che attraverso la progettazione comune di una serie di parti e componenti per diversi modelli di auto si propone di ridurre i costi (anche del 20-30%) e i tempi di sviluppo. Questa nuova Toyota, rinnovata nella filosofia, negli obiettivi, nel management e nell’organizzazione, ha ancora molti problemi da risolvere, dalla messa a punto di quella qualità di cui era andata sempre orgogliosa e che ancora mostra alcune falle (a ottobre scorso l’azienda ha annunciato che richiamerà 800 mila auto per problemi agli airbag), alla Cina, un mercato nel quale il numero uno al mondo è notevolmente indietro rispetto a Vw e Gm, e dove le tensioni geopolitiche tra i due paesi hanno effetti negativi sul mercato dei prodotti giapponesi, auto comprese, alla concorrenza sempre più agguerrita dei coreani della Kia e della Hyundai, che giustamente alla Toyota considerano antagonisti pericolosi. In una azienda di ingegneri Akio non è un ingegnere per formazione, in un’azienda in cui giapponesemente la seniority è la regola, Akio è più giovane di quasi tutti i manager che a lui riportano. Ma conosce e ama profondamente le macchine (per tre volte ha partecipato da pilota alla 24 ore del Nurburgring) ed è ossessionato dall’importanza del loro impatto emozionale, tanto da dare al design, che alla Toyota ha sempre ceduto il passo all’ingegneria, un nuovo peso nella progettazione delle auto. La rilevanza della Toyota, con i suoi quasi dieci milioni di auto prodotte, con i suoi quassi 230 miliardi di dollari di fatturato, gli stabilimenti sparsi per tutto il pianeta e gli oltre 330 mila dipendenti nel mondo è enorme. In Giappone lo è in particolare e l’impressione è che la leadership di Akio Toyoda stia muovendo nel paese il mondo dell’auto e non solo. Toyoda è anche presidente della Japan Automobile Manufacturers Association (Jama), dove grazie al gruppo che rappresenta, al suo nome e alla sua personalità, è riuscito a creare una nuova compattezza. Che si è cementata nei mesi successivi a Fukushima ed è stata rappresentata dalla presenza di tutti e 14 i capi azienda del settore alla presentazione del Tokyo Motor Show, dieci giorni fa. Quella dell’auto è l’industria simbolo del Giappone, e il suo rilancio in chiave di innovazione insieme al suo legame manifatturiero con il paese, è forse il segnale più forte che si sta chiudendo un fase, quella dei due decenni perduti. L’Abenomics con la svalutazione dello yen aiuta la competitività e soprattutto i profitti, ma non basta per la fiducia. Akio sta provando a costruirne un altro pezzo utilizzando la parola “monozukuri”, che è l’orgoglio della tradizione e della capacità manifatturiera del Giappone, perché è soprattutto sulla manifattura di qualità, aiutata dallo yen debole, che il paese può costruire un nuovo ciclo di crescita.

Fonte: Affari e Finanza del 2 dicembre 2013

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