Una parte non trascurabile della mia generazione amava la Storia, in particolare la storia del Risorgimento, delle guerre d’ Indipendenza, delle tappe che portarono all’ Unità d’ Italiae a Roma Capitale. La studiavamo sui testi che il regime fascista ci assegnava, il Silva, il Manaresi, e non trovavamo motivi per rifiutarne il magistero. Malgrado il tessuto pedagogico corrispondesse, almeno per gli anni dal 1922 in poi, fino alle prime realizzazioni mussoliniane, alla versione corrente dei fatti dell’ ultimo mezzo secolo, non sentivamo pulsioni politiche per respingerne gli assunti basilari. Anzi, riportandoci a quella ormai lontana presa d’ atto, debbo riconoscere l’ influsso etico-politico che quelle pagine c’ impressero, spingendo persino la minoranza più reattiva e vivace ad altre, arricchenti, letture, da De Sanctisa Croce. Una riflessione su queste lontane tracce dei nostri studi ginnasiali e liceali mi è venuta dalla comparsa dei numerosi saggi che hanno accompagnato le celebrazioni del 150°Anniversario dell’ Unità, fortemente propugnate dai due Capi dello Stato, Ciampi e Napolitano, il cui mandato si è temporalmente sovrapposto alle date delle evocazioni. Or bene, da dove nasceva quello spirito che ci animava quando studiavamo le Cinque Giornate, le battaglie di S.Martino e Solferino, la nascita dello Statuto albertino, la prima riunione del Parlamento piemontese, i Mille e così via? Perché ci faceva palpitare i cuori adolescenti il risuonare delle strofe, mandate a memoria: “O giornate del nostro riscatto/ O dolente per sempre colui/ che da lunge, dal labbro d’ altri/ come un uomo straniero/ le udrà!”. L’ interrogativo contraddittorio si è chiarito con gli anni ed anche le più recenti letture -ultima fra tutte, “Dal Risorgimento al Fascismo”, di Domenico Fisichella (Carocci ed.), hanno dipanato l’ apparente contrasto, quello tra il nostro giovanile impulso antifascista – almeno per chi lo aveva maturato- e la partecipazione emotiva alle vicende risorgimentali, vissute come la grande narrazione romantica della nostra adolescenza, che la scuola fascista ci offriva senza censure, anche se certe versioni ci appariranno un giorno lacunose e alquanto superficiali. Ma ci sarà tempo per il completamento gramsciano della nostra cultura. E anche chi non vi perverrà potrà trovare in altri autori, la chiave interpretativa per capire come poterono sovrapporsi due idee dell’ unità d’ Italia, l’ una di matrice nazionalistica, l’ altra patriottica e nazionale. O anche come potesse venire evocato congiuntamente lo Statuto albertino, dove venivano a maturarsi le nostre libertà civilie la mistica dittatoriale nel suo tentativo di coniare ad un tempo una nuova governabilità. Una volta ancora ci soccorre il bellissimo saggio di Fisichella che andrebbe letto ricordando come questo coraggioso politologo di alta tempra quando era vice presidente del Senato, si batté in assoluta solitudine contro la nefanda riforma del Titolo V della Costituzione e tutti quegli aggiustamenti che tendevano a sfasciare l’ opera di unificazione avviata nel 1848 dai patrioti che sognavano l’ Italia, “una e indivisibile”. Ma vi è un’ altra tematica fra le tante che Fisichella tocca che rappresenta un apporto ai nostri studi: la felice contaminazione che il Risorgimento operò tra liberalismo e democrazia, tra la costruzione di un bilancio in pareggio, operata dalla Destra storica, e le prime prove di un riformismo operoso che da Giolitti a Nitti lasciò le sue tracce nella edificazione dello Stato. Non vi è spazio per le note critiche che pur andrebbero mosse al nostro autore, a cominciare dal plauso alla mancata promozione dello stato d’ assedio da parte del re che avrebbe impedito l’ avvento di Mussolini al governo. Né basta la giusta chiamata di correo di popolarie socialisti che facilitarono il golpe, anche se all’ inizio non si presentava sotto questa veste.
Fonte: Repubblica del 22 ottobre 2012Tornate giovani alla storia patria
Ottobre 22nd, 2012
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L'autore: Mario Pirani - Socio alla memoria
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