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Telecom-Tim, una sfida e alcuni interrogativi

Gli azionisti di riferimento di Telecom Italia hanno fatto una scelta che potrebbe rivelarsi positiva per i soci e che, a prima vista, rischia di non essere positiva per il sistema industriale italiano. L’attività del gruppo sarà concentrata sui servizi di media e larga banda non solo in Italia, ma anche in Europa. Saranno scorporate la telefonia mobile, cioè la vecchia Tim da poco fusa in Telecom Italia, e la rete fissa, ovvero il complesso di cavi e centrali su cui corrono voce e dati. L’obiettivo è di «esaminare le opportunità di valorizzazione» per queste due società. In altre parole vendere la telefonia mobile e trovare dei partner per la rete.
Per i soci della Pirelli, che controlla Telecom Italia, e sperabilmente anche per quelli della stessa Telecom Italia è una buona notizia. I conti del gruppo sono sempre più traballanti. Ripagare l’enorme debito accumulato con le scalate senza capitali diventa difficile soprattutto in un periodo di tassi crescenti e di margini costantemente erosi da un’esasperata concorrenza. La decisione di ieri potrebbe far entrare nelle casse della società decine di miliardi di euro: la sola Tim ne vale 35-40. Inoltre incombe il rischio del consolidamento in Pirelli del debito di Telecom Italia: con l’acquisto delle quote di Emilio Gnutti e delle banche in Olimpia, la holding che ha in portafoglio il pacchetto di controllo di Telecom Italia, Pirelli e Benetton avranno presto il 100% di Olimpia e la Consob è pronta a tornare all’attacco per imporre il consolidamento del debito in capo alla Pirelli. Con tutto quello che ne consegue.
Insomma Marco Tronchetti Provera ha reagito con coraggio di fronte a una situazione che si andava ingarbugliando pericolosamente. Ora per Telecom Italia comincia dunque l’era della media company. Il modello di business su cui il management ha deciso di puntare piace al mercato e ha un futuro in un mondo in cui tutto passa per internet. Eppure per l’economia italiana è una brutta notizia. E non solo per l’irritazione che trapelava ieri sera dalle stanze del Governo.
Al di là del minuetto estivo sull’accordo con Rupert Murdoch e della mancata informazione sul progetto di doppio scorporo, i motivi di nervosismo del Governo sono tanti. Una volta ceduta Tim, Telecom Italia rischia di perdere il ruolo di grande impresa. In un Paese in cui le grandi imprese si contano ormai sulle dita di una mano. La telefonia mobile made in Italy è stata il fiore all’occhiello del gruppo. Per anni è rimasta all’avanguardia in Europa e nel mondo sia per le capacità tecnologiche sia per la genialità di alcune soluzioni di marketing.
Separare Tim da Telecom Italia è una scelta puramente finanziaria, non industriale. Che oltretutto ribalta la strategia della convergenza fisso-mobile su cui Tronchetti Provera sembrava deciso a puntare quando aveva annunciato la fusione Telecom Italia-Tim con precise valutazioni industriali. Anche se, proprio ieri, Vodafone, il più grosso operatore mobile al mondo, ha annunciato un’intesa con British Telecom per offrire ai suoi clienti servizi in banda larga su rete fissa. Un modello che potrebbe essere replicato in altri Paesi.
È vero che per ora nessuna cessione è stata decisa, ma il Governo già intravede due grossi problemi. Il primo riguarda l’assetto azionario di Tim. Nessun imprenditore italiano è in grado di acquisire la società dei telefonini. Le cordate e i noccioli duri sono passati di moda. Di conseguenza Tim è destinata a finire in mani straniere.
Il risultato probabile è che tutta la telefonia mobile italiana sarà sotto il controllo esterno: inglese con Vodafone, egiziano con Wind, cinese con 3. Non c’è da strapparsi i capelli per questo. Con un po’ di understatement si potrebbe dire solo che è un peccato, soprattutto se si pensa che Vodafone ha rilevato via Mannesmann una Omnitel, tutta italiana, che andava a gonfie vele. E che è stata venduta proprio per finanziare la scalata a Telecom Italia.
Il secondo problema riguarda la rete fissa. Che cosa significa in questo caso «opportunità di valorizzazione»? Poiché è impensabile che il controllo passi a operatori stranieri viene subito in mente il “soccorso pubblico” che fungerebbe anche da garanzia di neutralità della rete nei confronti dei concorrenti di Telecom Italia sulla telefonia fissa. Ma si può ipotizzare che lo Stato, con un bilancio pubblico nelle condizioni attuali, investa miliardi per riacquistare la rete di Telecom Italia?
Sembra difficile. Eppure il problema è sul tappeto, a meno che non ci pensino le solite fondazioni a togliere le castagne dal fuoco.
Sono passati quasi 10 anni dalla privatizzazione di Telecom Italia. Tre gruppi di controllo si sono avvicendati. Il “nocciolino duro” costituito dalla crema del “salotto buono” non ha lasciato tracce: si è ritirato rapidamente, e senza combattere, di fronte all’avanzata di Roberto Colaninno e degli altri campioni della razza padana. Che hanno zavorrato il gruppo con i debiti accesi per finanziare la scalata e per concludere operazioni discutibili. Poi sono arrivati Tronchetti Provera e i Benetton, pochi giorni prima di quell’11 settembre 2001 che ha cambiato la storia del mondo.
Lo “spezzatino” deciso ieri non è il migliore epilogo che si potesse immaginare per la storia della privatizzazione di Telecom Italia. È però un episodio emblematico dello stato di salute del capitalismo italiano, troppo schiavo dei debiti per vincere le partite che contano.

Fonte: Il Sole 24 Ore del 12 settembre 2006

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