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Sulle ricollocazioni un vuoto legislativo. Nelle aziende il “welfare bricolage”

Le imprese ci provano. Ma ricollocare i lavoratori eccedenti in tempo di recessione non è assolutamente facile. Per di più la strumentazione legislativa vigente è costruita attorno a un modello di welfare che per comodità chiameremo «statico». Tende a difendere l’ esistente e non è «dinamico», come nel modello della flexsecurity scandinava che tutela il lavoratore e non un determinato posto di lavoro. A impegnarsi di più nella ricollocazione – in gergo outplacement – sono le multinazionali perché hanno fatto esperienze analoghe in altri Paesi. Il caso più conosciuto è sicuramente quello della Electrolux – che aveva negoziato con il sindacato un accordo pilota – ma vengono segnalate esperienze-pilota all’ Alcatel, alla Omsa e alla Om Carrelli di Bari. In molti altri casi, purtroppo, l’ azienda non ha nessuna intenzione di farsi coinvolgere nel processo di ricollocazione dei lavoratori eccedenti, chiude e butta la chiave. La Eaton appartiene a questa tipologia così come due aziende dell’ area milanese (Cassina de’ Pecchi) come Jabil e Nokia-Siemens. Se volessimo catalogare il comportamento delle aziende con schemi tradizionali potremmo dire che questi sono i «nuovi falchi» mentre le aziende come Electrolux sono le «nuove colombe». In breve la frontiera delle relazioni industriali si sposta e, accanto al welfare aziendale, le iniziative a maggior tasso di socialità sono quelle, appunto, che cooperano nella gestione delle crisi aziendali. In genere il primo passo è quello del raggiungimento di un accordo sindacale, nella stragrande maggioranza dei casi unitario. L’ intesa prevede il ricorso alla cassa integrazione che in qualche maniera dovrebbe far da ponte tra passato e futuro, tra il vecchio posto di lavoro e il nuovo. In diverse occasioni, su indicazione del ministero dello Sviluppo economico, entra in gioco un consulente esterno che si fa carico di trovare nuovi investitori disposti a rilevare alcuni degli asset aziendali e a farsi carico di reimpiegare se non tutti i lavoratori una buona parte. Regioni e Province intervengono, in questo schema, per garantire la riqualificazione professionale dei dipendenti per metterli in sintonia con le nuove lavorazioni. Per rifarsi all’ esempio più recente in Omsa si passerà dalla produzione di calze a quella di divani e quindi si renderanno necessarie professionalità diverse. Idem per l’ Alcatel Italia che aveva bisogno di riqualificare il personale per indirizzarlo verso le nuove aree di business prescelte. Le cronache sindacali segnalano esperimenti assai diversi tra loro. In Italtel, la storica azienda milanese di telecomunicazioni, ad esempio si è fatto ricorso a strumenti tradizionali come una manovra sugli orari di lavoro assieme al tentativo di individuare nuove attività. Alla Om Carrelli di Bari la multinazionale Kyon ha chiuso l’ impianto ma ha accettato di discutere la reindustrializzazione del sito. Qualcosa del genere era successo dopo una lunga trattativa sindacale anche a Brembate nella Bergamasca per l’ impianto chiuso dalla Indesit. È stata avviata una iniziativa di reindustrializzazione con l’ arrivo di un’ azienda di imballaggi, la Effegi Pallets, che ha assunto 50 dipendenti dell’ azienda chiusa. Per tornare alla Omsa di Faenza, un caso che ha avuto una discreta eco sui giornali per le iniziativa di boicottaggio dei prodotti lanciati da diverse associazioni di base, è intervenuta l’ Atl che produce divani per i negozi di «Poltrone e sofà» che ha riassunto 120 operaie della ex Golden Lady. La Omsa ne riassumerà un altro piccolo gruppo per l’ apertura di uno spaccio aziendale e altre dipendenti dovrebbero passare a un gruppo commerciale esterno. Da un esame seppur sommario di queste esperienze la conclusione che se ne può trarre è fin troppo facile: siamo al «welfare bricolage», manca una legislazione adeguata e la recessione – come per Electrolux – aggrava tute le contraddizioni.

Fonte: Corriere della Sera del 21 marzo 2012

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