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Sulle pensioni occasione da non perdere

Ogni volta che si mette mano al sistema pensionistico italiano scatta immediata l’accusa di voler fare ‘macelleria sociale’ o di volere compromettere ‘diritti acquisiti’ dei lavoratori. Solitamente tale riflesso condizionato si riscontra nelle reazioni della sinistra politica e sindacale, ma la pigrizia, la disinformazione e l’approssimazione contribuiscono a diffonderlo anche in altri ambienti. Proviamo allora a fissare un concetto: il sistema previdenziale è stato già riformato diverse volte, da maggioranze di diverso colore politico, ma richiede ancora d’essere messo in equilibrio e sicurezza, e ciò lo si deve fare anche per ragioni di giustizia sociale.
Ci si occupa sempre di quanti si accingono ad andare in pensione e mai di chi s’accinge a entrare nel mercato del lavoro. Si parla sempre dell’età pensionabile delle donne nel privato, e mai del fatto che nel settore pubblico la si è velocemente parificata a quella degli uomini, sollecitati in tal senso da una sentenza della Corte di Giustizia, senza provocare proteste.
Se si guarda il problema nel suo insieme, e se lo si esamina proprio con particolare attenzione alla socialità e alla giustizia intergenerazionale, molti luoghi comuni crollano. La realtà è molto meno ideologizzata di tanti propagandisti che parlano a lavoratori che non conoscono.
Le riforme dei governi Amato (1992), Dini (1995) e Prodi (1997) hanno profondamente modificato un sistema che negli anni era divenuto insostenibile e iniquo. Insostenibile perché in un’Europa che invecchiava e invecchia, l’Italia invecchiava e invecchia di più e più velocemente. Iniquo perché sussistevano differenze fortissime (nelle modalità di calcolo del beneficio pensionistico e nelle regole di accesso) tra settori e all’interno degli stessi settori tra chi andava in pensione di anzianità e chi, invece, doveva aspettare la vecchiaia. Le riforme, varate a partire dagli anni 90, hanno corretto le principali anomalie: squilibrio finanziario, iniquità distributive, distorsioni del mercato del lavoro. L’età pensionabile è stata progressivamente innalzata e gradualmente ridotte e annullate molte delle differenze di trattamento tra lavoratori privati e pubblici. Si è adottata una nuova formula per il calcolo della pensione, che ispirandosi a principi di equità attuariale si basa su quantità dei contributi versati e durata prevista del pensionamento. Gli interventi hanno riguardato, come è noto, le varie coorti di lavoratori in misura e con modalità molto diverse: massima per coloro che sono entrati nell’occupazione a metà degli anni 90, significativamente meno rilevante, e inversamente correlata agli anni di lavoro effettuati, per chi al momento della riforma aveva già contribuito al sistema.
Molto è stato fatto per la sostenibilità del nostro sistema pensionistico negli anni a noi più vicini e da questo Governo. Abbiamo equiparato l’età per la quiescenza di vecchiaia tra uomini e donne nel settore pubblico, in tempi brevissimi, abbiamo introdotto l’aggancio dell’età pensionabile alla speranza di vita. Ci sono lavoratori la cui principale aspirazione è quella di smettere di lavorare, ma ce ne sono moltissimi in più che hanno fiducia nelle proprie capacità e che intendono, donne e uomini, raggiungere la pensione con il massimo di retribuzione e senza avere rinunciato a incassare i meriti, anche di carriera, che spettano loro. I politici che si occupano solo di come farli uscire dalla produzione sono gli stessi che non hanno alcuna stima del loro lavoro e della loro dignità.
Ma rimangono almeno due anomalie da correggere per portare il nostro sistema a essere più equo e sostenibile. Esiste, infatti, ancora oggi la possibilità di pensionarsi prima di raggiungere l’età per la vecchiaia e, anzi, questa scelta viene incentivata nella misura in cui i trattamenti di oggi sono ancora calcolati con il sistema retributivo e non sono in alcun modo collegati con la durata attesa del pensionamento. E, seconda anomalia, ancora oggi, alle donne, ma solo a quelle del privato, si applica un requisito per la vecchiaia più basso di quello cui sono soggetti gli uomini e le lavoratrici pubbliche.
Sono proprio le due anomalie che l’Europa ha evidenziato nella lettera che ha inviato lo scorso 5 agosto. Ma, al di là di questo, sono anomalie che consolidano disparità e iniquità interne al nostro mercato del lavoro, scaricandone su altri i costi. Correggerle, quindi, non solo è salutare dal punto di vista dei conti, dal cui equilibrio discende la sicurezza futura dei lavoratori, ma risponde a evidentissime domande di giustizia ed equità. Inoltre è totalmente coerente con le riforme fin qui fatte, comprese quelle volute dalla nostra maggioranza, in altre legislature, e da questo Governo.
Desidero essere molto chiaro: non è in questione una mia eventuale reazione a giudizi che mi riguardano, probabilmente ingenerosi o fuori tema. È questione di nessuna importanza. Ma deve essere chiaro che il lavoro che stiamo svolgendo non solo non ha nulla della macelleria sociale, ma cerca di evitare che siano squartati i legittimi interessi di chi è più giovane, come le speranze e l’impegno di chi considera il sistema produttivo italiano capace di competere sui mercati mondiali e non ripiegato nella miope difesa di quelle arretratezze che ne rallentano la corsa.
Proprio perché il lungo lavoro di riforma del nostro welfare pensionistico è stato realizzato negli ultimi 20 anni da maggioranze politiche diverse, si avrebbe oggi il miglior coronamento di tanti sforzi se l’equilibrio finale venisse individuato, in Parlamento, con una maggioranza più ampia di quella che attualmente sostiene il Governo.
Sarebbe questa la migliore dimostrazione di responsabilità, serietà, lungimiranza e coesione sociale. Una grande occasione da non perdere.

Fonte: Sole 24 Ore del 18 agosto 2011

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