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Sull’art.18 la Camusso sta tenendo in scacco il Paese

Come nel gioco dell’oca, nella trattativa tra governo e parti sociali si torna sempre alla casella di partenza. Sarà disposta la Cgil ad aderire ad un accordo che riformi, in qualche modo, l’articolo 18 ? E se ciò non avverrà come si comporterà il governo ? Andrà avanti lo stesso sfidando il Pd in Aula oppure lascerà perdere ? Questi sono gli interrogativi da sciogliere nei prossimi giorni.
Tutto il resto – pur riguardando aspetti importanti per la vita di centinaia di migliaia di persone – fa da contorno al nodo cruciale della disciplina dei licenziamenti che, ben oltre il suo effettivo significato che pure è rilevante, si è trasformato in un segnale che il nostro paese deve dare ai mercati. Riformare l’articolo 18 ha assunto ormai un senso che va ben oltre gli aspetti di merito. Chiedono di lasciarci alle spalle questo sepolcro imbiancato, in primo luogo per chiudere con un’epoca del nostro passato di cui tale norma è diventata l’emblema; e nello stesso tempo ci inducono a dimostrare che ai sindacati è stato sottratto quel diritto di veto ancora vigente in Italia, mentre non esiste più in alcuna parte del mondo sviluppato e civile. Altrove, nei paesi in cui il sindacato ha ancora un ruolo, esso lo esercita in uno spirito di grande collaborazione con il sistema delle imprese e con la singola azienda, non certo in una logica di contestazione e di conflitto sociale.
Da noi i confronti in corso sono sicuramente utili, ma, nei fatti, servono a guadagnare tempo, in attesa di capire quando arriva il momento della stretta finale, di fatto condizionata soltanto dalle decisioni politiche dei protagonisti della vicenda. Si è ormai capito che, per la riforma degli ammortizzatori sociali, non vi sono risorse aggiuntive adeguate: rinviarne l’attuazione al 2017 è come sottoscrivere una cambiale da onorare “a babbo morto”; discutere a lungo di apprendistato è certamente utile a perfezionare il profilo giuridico di un istituto contrattuale a cui tutti attribuiscono una nuova centralità nell’occupazione giovanile, ma non al punto da far dimenticare che esiste già una normativa definita recentemente dal precedente governo.
Eppure si passano intere sessioni a discutere di questi problemi (la cui importanza è indubbia) in attesa che giunga l’ora ‘x’ delle decisioni storiche che faranno il giro delle prime pagine in tutto il mondo. Al solito, anche in questa occasione, a sinistra si stanno facendo riconoscere. Il Pd dichiara di essere pronto ad accettare qualunque soluzione trovi il consenso delle parti sociali (tutti capiscono che per questo partito la sola parte sociale che conta è la Cgil). Ormai non salvano più neppure la forma: la cinghia di trasmissione gira soltanto in senso contrario. Mentre negli anni ’70 si diceva che i sindacati dovevano essere autonomi dai governi, dai padroni e dai partiti, adesso tocca a questi ultimi (se di sinistra) di dare la prova di autonomia dai sindacati (leggi: dalla Cgil).
La Confederazione di Luciano Lama creava, talvolta, qualche fastidio al Pci sul versante di un maggiore riformismo del sindacato rispetto al partito; quella di Susanna Camusso determina problemi molto seri al Pd su di una linea di arroccamento e di conservazione. E’ un nodo che il Partito di Bersani deve sciogliere. Non è possibile che una forza politica, probabilmente destinata a governare il paese, non sia in grado di sopportare e reggere uno sciopero generale proclamato dalla Cgil (se ben ricordo l’esecutivo Berlusconi ne ha subiti almeno sei). E’ singolare, però, che pure in Confindustria la questione dell’articolo 18 (che è poi la questione dei rapporti con la Cgil e con la Fiom) divida i due pretendenti a succedere ad Emma Marcegaglia, la quale si è impegnata in questa battaglia con un ritardo ben più che sospetto. Insomma, in un modo o nell’altro la Cgil tiene in scacco il paese. Susanna Camusso non avrebbe mai pensato di avere tanto potere. Il fatto è che dietro la signora Cgil si proietta l’ombra di Maurizio Landini.

Fonte: Occidentale del 26 febbraio 2012

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