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Sul digitale tassa velleitaria, meglio puntare alla concorrenza

di Franco Debenedetti

È discutibile se dire che i dati sono il petrolio dell’economia digitale sia una metafora oppure una similitudine: di sicuro induce in errore e potenzialmente fa danni. In errore perché mette sullo stesso piano l’economia dei bit e quella degli atomi, mentre se si vuol capire qualcosa dell’economia digitale, è essenziale iniziare col distinguere tra i due mondi. Fa danni perché vuole indurre i cittadini a pretendere che i loro Stati reclamino delle royalty da questo nuovo petrolio, come se non sapessimo dove son finiti i soldi estratti da quello vecchio, vale a dire a comperare auto di lusso e aerei da caccia per difenderle. Sostenere, come fa Mauro Marè (Web tax, i punti fermi da cui si deve ripartire, Il Sole 24 Ore del 5 dicembre 2017) che “le basi imponibili vanno cercate dove si formano e si trovano e cioè nei dati” e che “la chain value dell’economia digitale è nei dati”, senza analizzare le mutazioni e gli accrescimenti, di natura e di valore, che il dato subisce nell’economia digitale, significa condannarsi a non capire le “enormi trasformazioni” che essa porta con sé. I dati di un IP, in sé di valore pressoché nullo, diventano preziosi se qualcuno te li restituisce come chiave per accedere a miliardi di pagine di libri. I gesti che faccio mentre guido la mia macchina non hanno alcun valore: ma se qualcuno li registra, analizza e immette in una banca dati, questa consentirà il deep learning di un algoritmo, grazie a cui potremo, io (se lo vorrò) usare un’auto a guida autonoma, e un costruttore vendermela.

Le “anime belle”, che illustrano i difetti di una possibile web tax italiana, su cui ironizza Marè, non difendono ”direttamente le grandi aziende del web” (che han di che difendersi da sole): vogliono evitare che si diffondano nella nostra economia pregiudizi e preconcetti (oltre a quello che già circolano) che bloccherebbero la sua crescita nel digitale.

Serve quindi cominciare dal considerare che le piattaforme sono mercati a due versanti: su uno ci sono quelli che dànno i propri dati in cambio di moltiplicare le proprie conoscenze, di altri dati se si tratta di Google, di altre persone se di Facebook, e così via se di altre piattaforme. Sull’altro versante le imprese che chiedono alle piattaforme di mettere la propria pubblicità in modo mirato. I Re Mida che trasformano in oro informazioni prive di valore sono le aziende, e i giganteschi investimenti in HW e SW che hanno fatto. Le pagine indicizzate da Google erano 26 milioni nel 1998, un miliardo nel 2000, oltre 8 miliardi nel 2007: per riuscirci Google ha inventato una macchina. Apple stava spendendo per Lisa un multiplo di quello che noi all’Olivetti spendevamo per il sistema operativo dell’M24; e ha rischiato il fallimento fin quando, ritornato Steve Jobs, grazie allo smartphone è diventata la società di maggior valore al mondo. Amazon nel 2013-15 guadagnò probabilmente meno dell’1%, nel 2014 subì una perdita secca. Tanto a Jeff Bezos interessa non fare utili, ma crescere: investe somme gigantesche per allargarsi, dai libri, al cinema, al cibo, ai servizi sul cloud, adesso anche nella farmacia (se glielo lascian fare). Ad aumentare sono i valori di Borsa: Amazon vale 460 miliardi $, se smettesse di crescere e facesse profitti, il suo valore, oggi 3,5 volte il fatturato, crollerebbe ai multipli dei suoi concorrenti. Uber in nessun semestre da quando è stata fondata ha mai guadagnato un dollaro, ed è valutata 60 miliardi $.

Trovare il modo di ripartire i redditi tra il Paese in cui si fanno e si finanziano gli investimenti, (o la maggior parte di loro) non è facile: quello che è certo è che la web tax votata dalla Commissione Finanze del Senato, ammesso che se ne possano eliminare i difetti più evidenti, è, ad essere generosi, velleitaria. Non più semplice, ma almeno più serio, appare affrontare il problema non dalla coda, cioè dal reddito prodotto nella periferia, ma dalla testa, cioè da come promuovere la concorrenza nell’era di internet. Se si segue il principio che compito dell’antitrust non è proteggere le piccole aziende dalle grandi ma massimizzare i vantaggi per i consumatori, si finisce nel “paradosso dell’antitrust”: le grandi aziende possono essere molto efficienti. “L’Antitrust è di fronte a una battaglia tra giganti” scrive il Financial Times (7 Dicembre 2017): ha due strategie per contenere il potere dei giganti dell’internet. Una è di contrapporgli altri giganti, e quindi consentire fusioni orizzontali che affinché le aziende che stanno perdendo quote di mercato diventino grosse. L’altra è di considerare che gli oligopoli dell’economia digitale siano un problema che si corregge da solo: perché le reti non sono molto protette dalla concorrenza, dato che quanto più grande è il valore del tesoro nascosto, tanto più velocemente verrà recuperato. Come è successo tante volte, da MySpace a Netscape a Lycos, perfino a Yahoo. Cioè: consentire o che siano le aziende tradizionali a crescere perché siano loro a combattere gli oligopoli dell’internet, o che si sviluppi una battaglia senza restrizioni tra oligopoli. Nessuna delle due è una prospettiva soddisfacente: l’antitrust, lo dice il nome, era nata con altri obbiettivi.

Invece di litigare sulle briciole che cadono dalla tavola del loro padrone, è da “anima bella” pensare che possa essere un’azienda europea a far concorrenza a giganti della Silicon Valley? Non facile, è questione di cultura, di mercato e di impresa. Ma se con Marè ci inebriamo all’idea di imporgli una tassa sul fatturato, e con la Vestager di fargli pagare multe miliardarie, perfino inutile provarci.

Fonte: IL SOLE 24 ORE, 10 Dicembre 2017

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