Mancano sette giorni alla pubblicazione dei risultati degli stress test sulle banche. Il 23 luglio si saprà quali, tra le 91 più grandi in Europa, hanno bisogno di capitale per affrontare eventuali turbolenze di mercato. Una «operazione trasparenza» che ha un solo precedente: negli Stati Uniti, dopo il fallimento di Lehman Brothers, furono messi alla prova 19 gruppi bancari. Accadde nell’aprile del 2009 e l’operazione ebbe successo: gli istituti più importanti furono costretti a ricapitalizzare per 75 miliardi di dollari (più altri 125 quando i test furono estesi) e la fiducia tornò.
L’Europa arriva ai test oltre un anno dopo. In grande affanno e sulla scia della crisi del debito greco. Come al solito, almeno negli ultimi tempi, in ritardo. Con un grosso problema in più rispetto agli americani: la complessità del meccanismo decisionale. La vigilanza bancaria europea ancora non esiste: il progetto che intende crearla è oggetto di scrupolose, e forse pelose, attenzioni nei palazzi di Bruxelles. Nel frattempo a decidere sugli stress test sono in tanti: la Commissione europea, i governi nazionali, la Banca centrale europea (ma solo di striscio), le autorità di sorveglianza dei singoli paesi coordinate dal Cebs (Comitato europeo dei supervisori bancari).
La debolezza di un’unione monetaria che non riesce a fare un passo oltre il suo glorioso euro si vede anche qui, come nella gestione delle politiche di bilancio: la sovranità nazionale non fa sconti e di qualche leader in grado di far prevalere gli interessi europei su quelli degli stati membri non c’è traccia.
Il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi era giustamente preoccupato ieri all’assemblea dell’Abi quando ha spiegato che gli stress test, per avere successo, devono essere strettamente coordinati, produrre risultati comparabili ed essere trasparenti nei risultati, nei metodi e nelle ipotesi. La collaborazione è dunque essenziale in un campo dove però non regna l’armonia, con la Germania arroccata a difesa del suo sistema finanziario, molto arrugginito e molto protetto.
Gli stress test sono la risposta ai timori degli investitori. Che sono comprensibilmente nervosi dopo il panico da titoli “tossici” e quello da rischio sovrano.
Forse lo sono persino troppo nel caso delle banche europee: alla fine si potrebbe scoprire che stanno meglio di quanto i mercati temano. Anche perché le autorità nazionali di vigilanza nazionali i loro stress test li hanno già fatti. O almeno dovrebbero. E chi meglio di loro conosce la realtà delle banche vigilate? In gioco c’è dunque un asset importante come la credibilità delle banche centrali. Ma ormai la decisione è presa e gli stress test devono dare una risposta definitiva. Compresa quella più importante: chi mette i soldi se emerge la necessità di ricapitalizzare una banca? Gli azionisti e il mercato? Oppure lo stato?
Draghi ha dato la risposta: «I governi europei dovranno essere pronti a intervenire con le opportune misure, qualora i risultati indichino debolezze patrimoniali e non siano disponibili soluzioni di mercato». In altri termini il governo e la Banca d’Italia dovranno riattivare l’insieme di strumenti che furono approvati all’indomani del crack Lehman (da quelli di emergenza ai Tremonti bond) per far fronte a eventuali carenze di capitale. Proprio come fecero gli americani con il fondo Tarp (Troubled asset relief program) che servì anche per comprare azioni delle banche. Un’operazione che in Italia come nel resto d’Europa non sarà politicamente facile all’indomani delle manovre “lacrime e sangue” approvate per riportare sotto controllo deficit e debiti pubblici.
P.S. Ancora una volta Draghi ha detto che le Pmi faticano a ottenere credito. Come mai allora le grandi banche italiane (UniCredit e Intesa Sanpaolo) si sono precipitate a fornire finanziamenti a un’operazione di leveraged buy-out come quella di Florentino Perez e la Caixa su Abertis in Spagna?
Stress test in ritardo creano troppo stress
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