“Faremo tutto quello che è necessario. E – credetemi – sarà abbastanza”. Così disse il dottor Draghi-Jekyll, in difesa dell’euro, nella sua conferenza a Londra. Ma pochi giorni dopo, nella riunione del Consiglio della Bce, sembrò prevalere mister Buba-Hyde, tanto da meritare un titolo assai ironico di Forbes: “Faremo il necessario. Più o meno. In un certo senso. Più in là”…
Chi è Buba-Hyde? Buba è il nomignolo della Bundesbank, quindi il “cattivo” dovrebbe essere il suo presidente, Jens Weidmann. Forse è sua la responsabilità del fatto che non sia stato dato un seguito immediato, come i mercati si sarebbero aspettati, all’annuncio di Londra, con qualche mossa concreta. Ma forse, come nel romanzo di Stevenson, mr. Buba è – anche – l’altra faccia del dr. Draghi, che, in barba alle dichiarazioni di indipendenza politica della Bce, ha deciso di sottostare alla linea politica stabilita da Berlino: nessun sostegno ai paesi sotto attacco senza un’esplicita richiesta e una cessione di sovranità.
Poteva fare altrimenti, Draghi? Sì, poteva. Secondo quanto è stato riferito, solo Weidmann era contrario alla linea “Faremo tutto il necessario”. E anche se – di fronte a decisioni operative più incisive – si fossero uniti a lui i “satelliti” della Germania (Finlandia, Olanda, Austria) sarebbe rimasta una larga maggioranza ad approvarle. E doveva, anche, proprio per le ragioni da egli stesso esposte
a Londra: c’è una situazione di disordine sui mercati, che impedisce la corretta trasmissione della politica monetaria e che non può essere risolta dalle decisioni di ciascun paese da solo.
Aver avallato la linea imposta dai tedeschi è stato un doppio errore. Del primo si è già discusso abbondantemente. La richiesta ufficiale di aiuto è un preciso segnale ai mercati – il paese che la fa è sull’orlo dell’abisso – , esattamente il segnale che qualsiasi speculatore aspetta per sferrare la spallata finale. Questo effetto potrebbe essere combattuto se poi l’intervento di aiuto fosse illimitato, ma questa è un’altra ipotesi a cui i tedeschi si oppongono e le risorse dell’attuale Fondo salva-Stati (l’Efsf) sono ridicole come arma anti-speculazione; quanto a quelle del suo successore Esm (sempre che la Corte Costituzionale tedesca non lo bocci nella sua riunione di settembre) non sarebbero molte di più. Tanto è chiara l’inadeguatezza di questi strumenti dal punto di vista tecnico che è persino inutile discutere dell’aspetto politico, cioè di una cessione di sovranità del paese richiedente che impegnerebbe anche i governi futuri, impedendo qualsiasi politica alternativa.
Ma il secondo errore è forse anche più grave. Questo meccanismo implica che tutto ciò che c’è da fare per preservare l’esistenza dell’euro spetta ai paesi più in difficoltà, a cui le tecnocrazie assegnano i “compiti a casa” dei quali controlleranno poi lo svolgimento. Questi compiti, come gli esami di De Filippo, non finiranno mai, perché gettano gli “scolari” in una lunga depressione, che strozzerà le loro economie e impedirà il risanamento dei conti pubblici, per quanti sacrifici aggiuntivi si possano fare. Il meccanismo esclude invece che i compiti a casa debbano farli anche i paesi in migliori condizioni, Germania prima di tutto.
Anche di questi compiti un gran numero di economisti ha già parlato, ma sono inspiegabilmente assenti dal dibattito tra i capi di Stato e di governo europei. I compiti consistono nel rilancio della domanda da parte dei paesi che possono permetterselo, potendo usufruire di tassi d’interesse nominali prossimi allo zero e addirittura negativi in termini reali. E in una qualche forma di condivisione nella garanzia dei debiti: di proposte tecniche ne sono state avanzate un gran numero, anche da economisti tedeschi, ed alcune sono congegnate in modo da non pesare se non in piccola parte su questi paesi. Si tratterebbe solo di scegliere.
Al di là di un minimo di rilancio dell’economia europea, senza cui è difficile che si riesca a spezzare la spirale negativa dei paesi in difficoltà, l’accettazione di questi “compiti” darebbe un segnale determinante per i mercati, ossia che la volontà di evitare la disintegrazione dell’euro non è fatta solo di parole, ma anche di comportamenti conseguenti. Gli ormai mitici spread oggi si nutrono in gran parte di questa ipotesi, cioè che l’euro sia destinato a non reggere. Non si spiegherebbe altrimenti che imprese dello stesso settore e analoghe per rating e dimensioni abbiano costi di raccolta sul mercato obbligazionario, come ha evidenziato un’inchiesta del Sole24Ore, che ricalcano i differenziali tra i titoli pubblici dei loro paesi di appartenenza.
Ma come si risponde all’obiezione che la Germania rifiuta un maggior coinvolgimento nella soluzione della crisi per timore che un alleggerimento della pressione dei mercati segnerebbe la fine delle dolorose politiche di aggiustamento? Una prima risposta è che un cavallo può essere frustato a sangue, ma se prima non gli togli le pastoie non riuscirà mai a correre. Le pastoie dei paesi in difficoltà sono i tassi elevatissimi sia per il finanziamento del debito pubblico che per le necessità dell’economia privata. Una seconda risposta è che potrebbe essere rovesciato il meccanismo oggi stabilito. La Bce o il Fondo salva-Stati non intervengono su richiesta, ma di propria iniziativa; il paese oggetto dell’intervento accetta automaticamente i controlli: se non vuole sottostarvi, lo dichiara esplicitamente e gli interventi cessano. In questo modo si risolverebbe almeno uno dei problemi, quello del segnale dato alla speculazione con la richiesta di aiuto.
Bene. Cioè, male: e che si fa se in questo agosto, come molti temono, si scatena un altro attacco ai paesi sotto tiro? Paradossalmente, ci sarebbe forse da augurarselo. Allo stato dei fatti, solo la discesa in campo della Bce potrebbe affrontarlo. Potrebbe essere l’occasione in cui è giocoforza che Draghi-Jekyll prevalga su Buba-Hyde.
Spread. L’impegno di Draghi diviso tra Bce e Bundesbank
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