di Giuliano Cazzola
Si è parlato molto delle dichiarazioni di Luigi Di Maio sulle pensioni d’oro. Ma pare difficile concretizzare un intervento su questi assegni, spiega GIULIANO CAZZOLA
Sono rotolate nel tranquillo scorrere del weekend le dichiarazioni di Luigi Di Maio sulle pensioni d’oro. I primi a polemizzare con il candidato “grillino” – conoscendo il pressapochismo con cui affronta i problemi di merito – si sono affrettati a tracciare il perimetro dei pensionati da spennare, dissertando se si ragionasse dell’importo lordo o di quello netto nel definire i trattamenti considerati d’oro. In realtà a Di Maio piace vincere facile, perché in un insieme di 280 miliardi di euro (a tanto ammonta la spesa pensionistica in un anno) non occorre molta fantasia per individuare un sottoinsieme del valore di 12 miliardi. Magari – a conti fatti – si arriverebbe a scoprire che la scure dell’ex webmaster potrebbe calare nell’immediate vicinanze degli assegni percepiti da tanti che – via social – sono sempre assatanati contro le pensioni altrui; così qualcuno potrebbe sorprendersi di percepire una pensione d’oro a sua insaputa, come quel personaggio di Moliére che si accorge di “aver sempre fatto della prosa” quando parlava normalmente. Ma non è questo il principale problema.
La domanda da rivolgere a un uomo politico che pretende di governare l’Italia è un’altra: quali misure il suo governo adotterebbe per reperire significative risorse a scapito delle pensioni con patente dorata? Di soluzioni ne sono state proposte tante. Altre potrebbero far parte del bagaglio politico-culturale di una forza politica (sedicente) di rottura come il M5S. L’esproprio proletario, ad esempio; ovvero, un bel taglio netto sulla parte eccedente quell’importo che è giudicato appropriato secondo l’etica delle nuove Guardie Rosse. Perché non costituire una commissione ad hoc i cui componenti siano scelti tra gli ospiti di Giovanni Floris a diMartedì affidandovi il mandato di “fare giustizia”, sotto la presidenza di Mario Giordano e con Emiliana Alessandrucci nelle funzioni di segretaria? Tutto sommato sarebbe la strada più semplice e…. più rivoluzionaria. Le altre, quelle che presenterebbero una veste – ancorché sdrucita – di legalità, non sono agevolmente percorribili.
Cominciamo dall’introduzione di un contributo di solidarietà. Come la metterebbero con la Consulta? La Corte nella sentenza n. 173/2016 ha riconosciuto la legittimità del contributo di cui all’art. 1, comma 486 legge 147/2013 (legge di stabilità 2014). Tale norma stabiliva che, a decorrere dal 1º gennaio 2014 e per un periodo di tre anni, sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori a quattordici volte il trattamento minimo Inps, fosse dovuto un contributo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie, pari al 6% della parte eccedente il predetto importo lordo annuo fino all’importo lordo annuo di venti volte il trattamento minimo Inps; pari al 12% per la parte eccedente l’importo lordo annuo di venti volte il trattamento minimo Inps e al 18% per la parte eccedente l’importo lordo annuo di trenta volte il trattamento minimo Inps.
Tuttavia la Corte ha affermato con chiarezza, in quell’occasione, che “l’incidenza sulle pensioni (ancorché) ‘più elevate’ deve essere contenuta in limiti di sostenibilità e non superare livelli apprezzabili: per cui, le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalità, che è esso stesso criterio, in sé, di ragionevolezza della misura adottata”. In definitiva, il contributo di solidarietà, per superare lo scrutinio “stretto” di costituzionalità, e palesarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (artt. 2 e 38 Cost.), deve: 1) operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; 2) essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; 3) incidere sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); 4) presentarsi come prelievo sostenibile; 5) rispettare il principio di proporzionalità; 6) essere comunque utilizzato come misura una tantum.
La sentenza, poi, ha definito i canoni di politica legislativa – come “l’eccezionalità” e “la temporaneità” – che hanno consentito al provvedimento di cui al comma 484 dell’articolo 1 della legge n.147 del 2013 di superare l’esame di costituzionalità in ragione del “suo porsi come misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta”. Per i medesimi motivi, in quanto di carattere “eccezionale”, il contributo “non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema previdenziale”. Ecco perché il Governo non ha prorogato, alla sua scadenza alla fine del 2016, il contributo di solidarietà (che adesso è in vigore soltanto per gli ex deputati sempre che nelle prossime ore – come è probabile – non sia esteso anche agli ex senatori, a titolo di riparazione del “grave affronto” recato al disegno di legge Richetti).
Ripercorrere, al di fuori di un regime di autodichia, la strada del contributo di solidarietà per le pensioni ordinarie riporterebbe il provvedimento all’esame dei giudici delle leggi i quali non potrebbero che ribadire quanto hanno sancito nel 2016. Al prode Di Maio resterebbe la via – sulla cresta dell’onda di tutti i pennivendoli – del ricalcolo secondo il metodo contributivo in maniera retroattiva per i trattamenti calcolati col sistema retributivo, il cui importo non fosse corrispondente ai versamenti compiuti. Peraltro, i pentastellati troverebbero già scodellata una proposta avanzata a suo tempo dall’Inps, ben strutturata sul piano tecnico, anche se discutibile su quello politico. Il fatto è che questa “uscita di sicurezza” se la sono preclusa gli ammazzasette dei vitalizi degli ex parlamentari, proprio nella legge del loro beniamino Matteo Richetti. Il comma 5 dell’articolo 12 del AS 2888 recita infatti: “In considerazione della difformità tra la natura e il regime giuridico dei vitalizi e dei trattamenti pensionistici, comunque denominati, dei titolari di cariche elettive e quelli dei trattamenti pensionistici ordinari, la rideterminazione di cui al presente articolo non può in alcun caso essere applicata alle pensioni in essere e future dei lavoratori dipendenti e autonomi”.
Nella foga di punire gli ex parlamentari non si sono accorti di aver garantito – se la legge dovesse essere approvata in via definitiva nel testo uscito dalla Camera – un salvacondotto a favore delle cosiddette pensioni d’oro, le quali rientrano anch’esse nel novero delle “pensioni in essere e future dei lavoratori dipendenti e autonomi”. Qualcuno potrebbe far notare che questo comma birichino riconferma – in peius – quella difformità tra ex parlamentari e comuni cittadini il cui superamento era il principale obiettivo del disegno di legge Richetti. Ma quando a comandare è il rancore, chi se la sente di pretendere un po’ di coerenza?
Fonte: ilsussidiario.net del 19 dicembre 2017