Finora quando Giulio Tremonti parlava di tasse sulle banche i banchieri facevano gli scongiuri. Ieri invece, per la prima volta da molto tempo, hanno avvertito un tono più amichevole nelle parole del ministro dell’Economia. Che alla Giornata mondiale del risparmio ha lanciato un’idea nuova: «Due aliquote, una bassa per l’attività industriale, commerciale e una più alta per le attività finanziarie, in modo da marcare il favore per il credito e un disincentivo per la parte finanziaria. È un’ipotesi che dobbiamo considerare seriamente e valutare in Europa».
Quella proposta da Tremonti è una diversa declinazione della lotta alla speculazione, a lui, e non solo a lui, cara. C’è chi punta su un’imposta sulle transazioni finanziarie: Angela Merkel e Nicolas Sarkozy si sono spesi in più sedi a sostegno di quella che è nota anche come Tobin tax. Al di là dell’Atlantico Barack Obama e i suoi consiglieri la introdurrebbero subito se potessero prescindere dalla potente lobby delle banche.
Tremonti pensa invece di distinguere tra i profitti che vengono dagli affari buoni (il margine di interesse che deriva dall’impiego dei fondi raccolti) e quelli che originano da investimenti “impropri” come il proprietary trading. E di applicare aliquote diverse. Un po’ come Basilea 3 distingue il fabbisogno di capitale sui crediti da quello sui titoli.
Molti banchieri hanno apprezzato l’idea. Salvo poi domandarsi quanto sia realizzabile. Intanto dovrebbe essere una scelta il più possibile globale, almeno europea come ha detto il ministro, per evitare distorsioni della concorrenza. Qualcuno si chiedeva se la doppia aliquota implica l’introduzione di un regime alla Glass-Steagall, ovvero la separazione societaria tra banche commerciali e banche d’investimento che oggi stanno sotto lo stesso tetto della banca commerciale. Un ritorno al passato su cui l’ex-governatore della Federal Reserve e consigliere di Obama Paul Volcker ha invitato a riflettere dopo la crisi finanziaria, senza peraltro riscuotere grandi consensi soprattutto a livello politico.
Se invece i due tipi di business fossero gestiti nella stessa società si porrebbero problemi tecnici: «Se faccio mutui a 30 anni spiega un banchiere mi devo coprire con strumenti che potrebbero anche essere catalogati come speculativi. E invece fanno parte della più comune attività commerciale».
Un altro fa osservare che lo stesso criterio potrebbe essere applicato alle imprese attive nell’industria e nei servizi: «Se un’azienda ha un eccesso di liquidità e anziché investire in ricerca o in nuovi impianti compra titoli di stato non è speculazione anche quella?».
In generale i banchieri riconoscono che l’idea ha un suo fascino. Anche perché essi stessi hanno fatto dell’attività tradizionale di raccolta del risparmio e di credito il punto di forza del sistema italiano. Sanno peraltro che oggi si lavora a parità di gettito. Il presidente dell’Abi Giuseppe Mussari lo ha detto chiaramente: «Abbiamo il 44% di pressione fiscale, il 15% più della media dei concorrenti europei. Non chiediamo oggi riduzioni della pressione fiscale, ma è questo un obiettivo che il paese deve darsi e che deve conseguire non appena possibile». Del resto, nelle condizioni attuali della finanza pubblica, sarebbe abbastanza bizzarro che si detassassero le banche.
I banchieri, dunque, non si aspettano favori, nell’immediato, dal ministro della non dimenticata Robin tax. Il tono conciliante di Tremonti ha indotto molti di loro a pensare che le elezioni si avvicinano e che è giunto il tempo di costruire consenso. Soprattutto da parte di chi ha legittime aspirazioni di crescita.
Resta il fatto che il metodo “cooperativo” adottato dopo l’armistizio di 12 mesi fa tra il ministro e le banche potrebbe dare buoni frutti anche sul fronte fiscale.
Speculazioni, una mossa all’insegna dell’Unione
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