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Sovranità ridotta per salvarsi

Ora sì che siamo sotto tutela. I Trattati europei non prevedono nessun «commissariamento» del governo di un Paese membro, ma ciò che è avvenuto ieri è quanto più si può fare in quella direzione. All’Italia si chiede di adottare entro i prossimi tre giorni le parti inascoltate della ormai famosa lettera inviata da Trichet e Draghi all’inizio di agosto. Volendo fare l’avvocato del diavolo, si potrebbe ribattere: gli altri Stati europei se la prendono con l’Italia perché non si sono riusciti ancora a mettere d’accordo su tutto il resto. Ma non è così. C’è una ragione precisa per cui l’Italia è passata avanti a tutto il resto, nella ardua scelta della cadenza in cui affrontare i diversi aspetti del problema dell’euro di cui parlava ieri Bill Emmott su questo giornale. La Francia e la Germania restano ancora divise su come rafforzare il Fondo europeo di salvataggio, l’Efsf. Eppure, sulla base delle presenti condizioni l’Italia appare too big to be saved, troppo grande per essere salvata da questo fondo comunque rafforzato, se per caso i mercati finanziari si accanissero contro di lei.
Silvio Berlusconi finora ha contato che il nostro Paese fosse, per restare al gergo della finanza, too big to fail, troppo grande – a differenza della Grecia – per essere lasciato fallire, e che quindi gli altri Paesi fossero costretti ad aiutarci magari anche storcendo il naso. Ieri a Bruxelles è emersa la realtà: contro l’Italia si è più impazienti che verso altri Paesi in difficoltà, perché solo l’Italia ha un peso tale da trascinare a fondo anche chi tentasse di salvarla; si è particolarmente impazienti perché le resta ancora un po’ di tempo, seppur poco, per salvarsi da sola (a differenza della Grecia, di cui ormai una parziale insolvenza pare inevitabile).
Non si fraintenda: in tutto questo c’entrano assai poco i provvedimenti «per lo sviluppo» sui quali il governo non riesce a decidere da settimane. Dalle parole del presidente del Consiglio europeo Herman van Rompuy e del cancelliere tedesco Angela Merkel si ricava che: 1) non viene ritenuto credibile l’impegno al pareggio del bilancio nel 2013, contenuto nella maxi-manovra economica di Ferragosto; 2) occorre perciò un nuovo sforzo per riempirlo di contenuti; 3) per limitare gli effetti recessivi dell’austerità necessaria a riequilibrare il bilancio, occorre varare riforme economiche importanti, capaci di indicare una nuova via di crescita per l’economia italiana.
Servono appunto riforme di grande portata, non le mance a questo e a quello (gabellate per incentivi allo sviluppo) di cui si è inutilmente discusso fino a ieri perché Giulio Tremonti non voleva sborsare i soldi necessari. Il breve elenco enunciato ieri da Van Rompuy contiene tutti i punti disattesi della lettera della Bce: «mercato del lavoro, aziende pubbliche, privatizzazioni, sistema giudiziario, lotta all’evasione fiscale». Ancora, non si fraintenda: la «giustizia» di cui si parla qui non è penale, è civile, con la sua lentezza quasi unica al mondo intralcia l’economia; e i provvedimenti suggeriti per il mercato del lavoro (meno tutele per i lavoratori fissi ma più per i precari, indennità di disoccupazione per tutti, nella versione della Bce) non coincidono con quelli fin qui presi, pur se risulterebbero sgraditi alla Cgil anch’essi.
L’Italia appare oggi come il caso limite di una irresponsabilità dei governi nazionali verso gli interessi collettivi europei che non è più compatibile con l’unione monetaria. Per andare avanti sarà richiesta a tutti una rinuncia parziale di sovranità; a tutti, anche alla Germania che per ora preferisce il soccorso alle proprie banche all’aiuto per la Grecia, benché il primo costi assai più caro del secondo. Il processo decisionale europeo è lento in modo esasperante, per colpa di tutti; ieri abbiamo veduto emergere il timore che la paralisi italiana lo faccia deragliare una volta per sempre.

Fonte: La Stampa del 24 ottobre 2011

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