di Paola Pilati
Individualisti: ognuno di loro ha una sua ricetta. Presuntuosi: ciascuno è sicuro di poter raddrizzare il mondo. Arroganti: nessuna disciplina vale quanto un’analisi economica. Onnipresenti: editorialeggiano sui giornali, consigliano i governi, influenzano le grandi imprese. La loro missione è quella di lavorare per il benessere della gente comune? Eppure si sentono un’élite, e come tale si fanno pagare. A descrivere così gli economisti, come una nuova razza padrona, non è un pamphlet spazzatura, ma un serissimo paper intitolato “The superiority of economists”, scritto da due sociologi e un economista di estrazione accademica (Fourcade, Ollion, Algan), su cui lo scorso settembre persino la Banca di Francia ha organizzato un dibattito. Ma come è capitato che in pochi anni quelli che erano solo dei tecnici, rispettati sì ma reclusi nel recinto degli esperti, nascosti dietro le quinte del potere, siano diventati così presenti e influenti?
Prendiamo il greco Yanis Varoufakis, 54 anni, specialista dell’economia dei giochi, che da ministro delle Finanze del governo Tzipras è diventato il capofila di una gauche europea antiausterità, e ora ha inaugurato il suo secondo lavoro da conferenziere accolto e strapagato come una rock star. O il banchiere centrale più glamour del momento, il capo della Boe, la Bank of England, il canadese Mark Carney, una certa somiglianza con George Clooney e vestiti impeccabili, che in quel mondo tecnocratico e molto understatement si muove con inedito protagonismo tra una maratona, i party più esclusivi, e le frequenti esternazioni sulla stampa.
E che dire del francese Thomas Piketty, che con il suo libro “Il Capitale nel XXI secolo”, nuova bibbia della sinistra che riflette sulle moderne disuguaglianze e vuole una tassazione mondiale del capitale, ha venduto milioni di copie? Un fenomeno inimmaginabile per un testo zeppo di grafici e tabelle, ma capace di ispirare a New York persino una serie di concerti battezzati Anticapitalist concerts. Non ha sorpreso quindi che il Nobel per l’economia di quest’anno sia andato allo scozzese Angus Deaton, considerato il maestro di Piketty, mentre epigoni del professore francese, come Gabriel Zucman, si inerpicano nella strada del radicalismo economico sostenendo che i ricchi rubano a tutti perché protetti dai paradisi fiscali. Non che la tesi non abbia un fondo di verità, ma è roba che nell’era AP (avanti Piketty), aveva fortuna al massimo in un centro sociale. Oggi ha un’audience di massa.
Fenomeni certo fuori standard. Ma è vero d’altra parte che la benedizione sui conti di un paese impartita dal capo del Fondo monetario Christine Lagarde è più importante di quella urbi et orbi del Papa. Non parliamo poi dell’impatto sulla nostra quotidianità di una frase di Janet Yellen, la prima donna a capo della Federal Reserve americana, dove un aggettivo può provocare l’effetto farfalla: qui battito delle ali, alla fine uragano. O di quanto pervadono le nostre vite i guardiani dell’economia che stanno a Bruxelles e i gendarmi della Banca centrale europea di Francoforte, dai quali dipendono le tasse che dobbiamo pagare, i sacrifici che dobbiamo fare, il valore dei nostri risparmi.
A ben vedere, l’ascesa degli economisti è iniziata proprio quando avrebbero dovuto volgere al tramonto: con la grande crisi del 2008. «È successa una cosa strana», dice Lucrezia Reichlin, nel ranking delle prime dieci economiste donne secondo Repec, il più grande database della produzione economica: «la crisi ci ha screditati perché nessuno l’ha prevista, ma il dibattito è diventato più interessante, e alla fine ci si è rivolti agli economisti per trovare la via d’uscita». Che l’abbiano trovata c’è da dubitarne, ma il dibattito è lievitato fino a rendere l’economia materia tanto spettacolare da farne festival di strada, come quello che si tiene con successo a Trento, e da inserirla in contesti altri: da Kilkenomics, Irlanda, festival che mischia economia a comicità (dove capita che ti spieghino con l’algebra come una donna sceglie tra diventare moglie piuttosto che prostituta), al New York Comic Con, il festival annuale sulla fiction, che ha chiamato il Nobel Paul Krugman a parlare del mondo di Star Treck, in cui tutto ciò che serve è procurato dai robot e il denaro non esiste più, l’esatto contrario dell’attuale scarsità.
I Nobel sono naturalmente i più gettonati, soprattuto se, come Krugman, hanno l’aria di ragazzacci che le cantano senza peli sulla lingua e gestiscono con disinvoltura il proprio blog, o se, come Joseph Stiglitz, si collocano in un area di pensiero anti-establishment, dove non è più “il mercato” a farla da padrone. E d’altra parte è lì che Piketty ha trovato il terreno più fertile. Ed è per questo che entrambi sono tirati per la giacca dai partiti di sinistra di tutta Europa. Sia Piketty che Stiglitz sono stati nominati consiglieri di Jeremy Corbyn, il leader laburista britannico, insieme all’economista italiana Mariana Mazzuccato (insegna nel Sussex), il cui cavallo di battaglia è che lo Stato è più innovatore del capitalismo privato. Sempre Piketty consiglia gli spagnoli di Podemos, e Stiglitz la Sinistra italiana di Stefano Fassina.
Perché se è vero che, come dimostra “The supremacy of economists”, il mainstream del pensiero economico è piuttosto concentrato sui filoni dettati da poche scuole dominanti (Harvard, Mit e Chicago) e dai temi della macroeconomia, dopo un lungo periodo di egemonia assoluta degli esperti di finanza, nella famiglia degli economisti si è aperta una faglia che ha fatto tornare in auge i bisogni degli individui, l’impatto dei loro comportamenti, le problematiche profonde della società. Persino due grandi vecchi come i premi Nobel George Akerlof e Robert Shiller hanno appena sfornato un libro, “Phishing for phools” in cui sostengono come non sia vero che il “mercato” metta i consumatori nelle migliori condizioni per decidere, ma che anzi ne faccia dei polli pronti a essere catturati e spennati.
Piketty dunque come un nuovo Keynes? «Le idee di Keynes sono state la base delle politiche economiche del New deal e poi del dopoguerra. L’influenza di Piketty è molto più limitata: è il consigliere di Corbyn – il politico con meno futuro sulla scena», frena la Reichlin. «Tuttavia il suo lavoro ha avuto un effetto positivo sul dibattito economico perché ha messo in evidenza le diseguaglianze, un tema molto importante. Ma Piketty non ha fornito nuove basi metodologiche in alternativa all’approccio dominante».
Che una disciplina eminentemente quantitativa, basata su numeri e grafici, possa diventare l’unica chiave per interpretare i bisogni della nostra civiltà, può apparire assurdo. Ma è vero però che sono loro, gli economisti, i soli a cui ci si rivolge per trovare ricette per risanare la depressione di cui l’Occidente continua a soffrire. Per meglio dire: i soli disposti a darle. Daniel Cohen, fondatore della Scuola di Economia di Parigi, nel suo libro appena pubblicato “Le monde est clos et le desir infini”, riflette sull’angoscia dell’umanità di fronte alla scoperta che il mondo è diventato troppo piccolo, e sulla fine dell’illusione delle crescita infinita. William Easterly, professore alla New York university, attacca frontalmente – nel libro “The tyranny of experts” – un personaggio del calibro di Bill Gates accusandolo di “filantrocapitalismo”, e sostenendo che i soldi spesi in aiuti da magnati come lui nei paesi africani hanno spesso dato sostegno ai regimi autoritari. E una superstar come Jeffrey Sachs ha scritto, lo scorso novembre, una perentoria lettera ai grandi del G20 in cui chiedeva di rispettare la promessa di non sovvenzionare più le energie fossili.
Alla fine è il potere politico che resta l’interlocutore elettivo degli economisti. Arrivando dalle nostre parti, chi meglio della premiata coppia di economisti-editorialisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi interpreta il ruolo di ispiratrice e giudice dell’azione di governo di Matteo Renzi? E chi meglio del bocconiano Roberto Perotti, per oltre un anno commissario alla spending review a Palazzo Chigi, ha sintetizzato la frustrazione dell’impotenza che spesso definisce il rapporto con quel potere?: «Mi sentivo inutile», così ha spiegato il suo addio.
Per quanto nell’era DP (dopo Piketty) la famiglia degli economisti delle accademie dominanti abbia dovuto accettare suo malgrado il successo della nuova tribù, ha tuttora qualche difficoltà a includere le donne. In un sito chiamato “Ladynomics, per una Signora economia”, si snocciolano le cifre. Nella Società italiana degli economisti su 880 iscritti le donne sono 222, cioè il 25 per cento, sebbene le donne laureate nella materia siano oltre il 50 per cento del totale (dato 2013). Altrove non deve essere molto diverso se tra i primi cento economisti del mondo della classifica Repec ci sono solo due donne: Carmen Reinhart, cubana con insegnamento ad Harvard all’ottavo posto, e al trentunesimo la francese Esther Duflo, in odore di Nobel, una Giovanna d’Arco della lotta contro la povertà fatta con domande del tipo: ai poveri le zanzariere è meglio darle gratis o fargliele pagare? Non che le donne non si facciano avanti: tra gli economisti emergenti il settimanale “The Economist” mette Hélène Rey, 43 anni, anche lei francese di nascita e insegnamento alla London Business School. E a testimoniare che anche nel campo delle donne economiste si possono continuare a fare cose egregie c’è Deirdre McCloskey, oggi 73 anni e vent’anni fa Donald di nome. Ha cambiato sesso ma è, rimasta, nel passaggio, una delle massime teoriche del liberismo e delle virtù della borghesia.
Fonte: Donna - 22 gennaio 2016