Se campagna elettorale ed elezioni sono il momento culmine in cui si riassume il funzionamento della democrazia, quelli che pensano che la democrazia sia un metodo per la selezione delle élite hanno un motivo in più per provare sconcerto di fronte al risultato di queste elezioni. Non è solo che i sondaggi sembra non servano più a orientarci, che in questo Parlamento sembra impossibile formare una maggioranza, e che alla Camera il primo partito sia un movimento anti partito. Le ragioni di choc vanno molto più in profondità, toccano il meccanismo stesso di formazione del consenso democratico.
Il MoVimento 5 stelle programmaticamente rifiuta le élite, esige la verginità politica dei suoi candidati, si vanta di mandare in Parlamento personaggi del tutto digiuni di ogni esperienza politica. La V nella sua sigla sta a ricordare i successi già conseguiti nel distruggere il linguaggio della comunicazione politica; il nome movimento anziché partito vuole ribadire che il punto di arrivo è sostituire la democrazia diretta alla democrazia rappresentativa.
Dalle élite che traggono legittimità dalle proprie capacità tecniche al popolo della rete che trae legittimità dal proprio telefonino. In poche ore, un cambiamento epocale. E pare un disastro. Davvero? Se è vero che la democrazia seleziona le élite, deve valere anche che le élite sono quelle selezionate dal processo democratico. E una battuta facile dire che secondo questa definizione il governo di Mario Monti, che nella sua vita è sempre stato nominato, mai eletto, tutto formato da ministri anchessi non politici, non è un governo di élite; una battuta fuorviante se volesse insinuare che è un governo non democratico. Monti, salito in campagna elettorale, ora è un politico a tutti gli effetti: ma inalterata è la sua visione dello spazio politico e della lotta politica, secondo cui le preferenze degli elettori non dovrebbero più collocarsi secondo lasse destra/sinistra, cioè quello su cui storicamente si sono formate le loro identità politiche, ma secondo lasse riformisti/conservatori. E il paradosso aiuta a capire che questo non è solo un errore, dato che rende più difficile mobilitare le volontà necessarie per uscire dalla crisi, ma è propriamente un peccato che attiene al rapporto democratico tra la supposta oggettività della tecnica e la reale identità dei cittadini, come si è potuto constatare anche nella partecipazione alla campagna elettorale.
Il problema di selezionare le proprie élite riguarda anche la sinistra. Questa, scrive Luca Ricolfi sulla Stampa, da sempre ha il problema di allargare i propri consensi al di fuori della cerchia dei propri sostenitori tradizionali. Lerrore è conseguenza della scelta delle primarie come metodo di selezione. Se scommettete su quale ragazza vincerà il concorso di bellezza, ammoniva John Maynard Keynes, non puntate su quella che vi piace di più, ma su quella che ritenete piacerà di più agli esaminatori. Chi partecipa alle primarie lo scrissi sul Riformista nel 2002 non è un campione significativo dellinsieme di chi ha diritto a partecipare alle elezioni. La preferenza espressa in quella sede non è un sondaggio indicativo delle preferenze degli elettori. E anche sulla sua democraticità cè da discutere: la sovranità è del popolo degli elettori, non del popolo delle primarie. Quello di poter scegliere da chi essere governati è un diritto: se il candidato che esce dalle primarie è diverso da quello che potrebbe avere il voto della maggioranza, la conseguenza per gli elettori è di trovarsi privati del diritto a essere governati da un candidato a loro gradito.
Se serve a far piazza pulita delle finte certezze del politically correct, a ragionare sulle idées reçues, è davvero un disastro il risultato di queste elezioni?
Senza “destra” e “sinistra”, la supremazia dei tecnici si affloscia
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