Banche e imprese sono legate a doppio filo in Italia, specie le Pmi. Inutile sognare un Paese non “banco-centrico” che per ora non c’è, immaginando che l’urgenza finanziaria delle aziende si possa risolvere con mini-bond, agenzia europea di cartolarizzazione dei crediti delle Pa, o altro: magari tra qualche tempo sì, ma non ora. Il filo tra imprese e banche si è andato sfilacciando negli ultimi anni, e che si deve di fronteggiare l’emergenza.
Ancor più impellente se qualche segnale di maggior fiducia si intravede per i prossimi mesi. Servono investimenti sulla qualità del capitale fisico e immateriale delle aziende che possono sperare di vendere i loro prodotti sul mercato nazionale ed estero. Sono imprese che possono contenere il calo occupazionale, e in futuro invertire la tendenza che ci ha visto perdere un milione di posti di lavoro dal 2008.
I dati dell’osservatorio Cerved presentati dal Sole 24 Ore documentano il deteriorarsi del rapporto banche-imprese. Visto dalla parte delle società non finanziarie, il peso del debito sul Mol è passato dal 4,5 al 6% tra 2009 e 2012; la percentuale di aziende con oneri creditizi superiori alla metà del margine lordo è passata dal 26 al 29%. La linea di resistenza delle imprese è consistita nell’aumento della capitalizzazione: gli imprenditori hanno investito i loro patrimoni nell’azienda o hanno trovato soci disposti a farlo. Le difficoltà delle aziende si ripercuotono sui bilanci delle banche: come ricostituire un nesso virtuoso tra le due parti? Alessandrini e Fratianni (Il Sole del 27 luglio) suggeriscono che le banche dovrebbero ottenere più capitale (pubblico), più tempo, più flessibilità nei requisiti patrimoniali. Sugli ultimi due punti siamo d’accordo, il primo non ci persuade.
D’accordo sull’esigenza di evitare che banche italiane poco capitalizzate divengano preda di intermediari stranieri, sussidiati dallo Stato. Nessun rigurgito autarchico, ma le banche non sono produttori di cioccolata o tessuti, sono l’infrastruttura principale e la “rete neurale” del capitalismo. Le risorse pubbliche in Italia sono scarse, e i nostri dubbi sono due. Primo, natura e contesto delle possibili operazioni. Per evitare che si alimenti l’avversione civile rispetto a risorse pubbliche a sostegno delle banche, occorre un radicale rinnovamento e trasparenza nella gestione degli istituti di credito. Questo non sempre avviene, anche a livello locale dove all’ombra della specificità dei territori si perseguono interessi di consorterie poco aperte a merito e innovazione. Non è pensabile che l’attore pubblico mobiliti risorse e sia “distratto” rispetto a controllo e management degli istituti che capitalizza. Non è possibile che un gruppo ristretto di manager gestisca il rinnovamento, né che si ripetano gli episodi del passato riguardo a compensi o buonuscite degli amministratori.
Il secondo dubbio riguarda l’efficacia relativa dei possibili, diversi interventi volti a rivitalizzare l’economia italiana e a “riparare” il legame banche-imprese. La priorità è salvare le imprese non finanziarie: da qui occorre partire. Gli effetti positivi sul sistema bancario ne discenderanno. Le risorse che si rendessero disponibili con un negoziato sui tavoli europei, o con nuove funzioni attribuibili alla Cassa depositi e prestiti, andrebbero destinate alle imprese specie piccole e medie, “disintermediando” le banche. Sarebbe un segnale coerente in tal direzione concludere entro fine anno il pagamento dei crediti arretrati della Pa. Molte Pmi non sarebbero costrette a chiedere crediti ma potrebbero realizzarli con risorse proprie se lo Stato pagasse. Oppure si potrebbe avviare un piano per riportare l’edilizia scolastica e carceraria a livelli degni di un Paese civile, finanziandolo con la leva pubblica e la Cdp. L’edilizia ne trarrebbe beneficio immediato, e anche il lavoro. Le banche aspetterebbero un po’, ma anche i loro bilanci ne trarrebbero vantaggio.
Se si salvano le Pmi, son salve anche le banche
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