«Ognuno per sé e Francoforte per tutti». Volendo sintetizzare con uno slogan il rischio che corre la società italiana, Giuseppe De Rita ha scelto di usare un vecchio e conosciutissimo proverbio, inserendo però la Banca centrale europea al posto dell’Onnipotente. Come può una società complessa, si è chiesto il sociologo, vivere e crescere relegando milioni di persone ad essere una moltitudine egoista affidata a un mercato turbolento, sregolato e non trasparente? La domanda, ovviamente retorica, comporta una sola risposta: non può. Una società non riuscirà mai a svilupparsi nella crescente mancanza di senso e di significato, nel disagio antropologico, nel rattrappimento individuale, nel declino di ogni desiderio di futuro. E De Rita ci mette in guardia persino dal predominio lessicale dello spread, perché come ammonivano gli antichi rabbini: «Se parli greco con il greco, gli hai già dato ragione». Di fronte dunque al rischio di morire tutti francofortesi il Censis ci consiglia vivamente di riscoprire le radici, di valorizzare il legame del nostro sviluppo con la tradizione fino a rimettere in circolo i valori fondanti della civiltà contadina, giudicata «la più coerente con la nostra attuale innegabile fatica di vivere, di adattarsi alla crisi, di cercare di andare oltre la brutta stagione». Per dirla tutta, De Rita pensa che il modo (vacuo e banale) con il quale abbiamo importato «l’agiatezza e la modernità occidentali», proprio perché superficiale, non abbia saputo incidere sul carattere di fondo della nostra società che, chiamata in questi mesi a lottare per sopravvivere, deve far leva innanzitutto sul suo «scheletro contadino». Uno schema che boccia clamorosamente la modernizzazione italiana e quelle élite cosmopolite che si sono impegnate a costruirla. C’è, dunque, molto pessimismo e qualche spruzzata di nostalgia nel 45simo Rapporto Censis che cade in un momento estremamente delicato della vita nazionale. È chiaro che in un contesto dominato dalla bufera finanziaria e dai rischi di decomposizione dell’Europa anche per i sociologi è difficile scommettere o anche solo intravedere il nuovo. Eppure è forse questo lo sforzo che oggi servirebbe di più. L’Italia deve mettersi in grado al più presto di presentare una doppia offerta, ai mercati finanziari e agli italiani. Deve saper convincere gli uomini del rating di aver preso in mano il proprio destino, di aver individuato le cause della sua malattia e di aver approntato una terapia. Ma deve saper persuadere gli italiani a iniziare un viaggio, a riprendere in maniera sicuramente meno vacua quel percorso di modernità che pure aveva iniziato proprio a partire da un altro momento di grave difficoltà (i primi anni 90). È un’avventura che non può che cominciare sotto il segno della discontinuità e della rottura di vecchi equilibri conservatori. Poi per avere qualche speranza di successo e continuare il viaggio occorrerà individuare il posto dell’Italia in un mondo che non concede niente a chi non si specializza, bisognerà ringiovanire la società a tutti i livelli, si dovrà chiedere alla rappresentanza politica e sociale di autoriformarsi e di dimagrire. Infine occorrerà ridurre le distanze sociali per mettere in sinergia il senso di giustizia con la mobilità verso l’alto. Se si vuole davvero ripartire non bisogna ripetere gli errori di venti anni fa quando si finì per confondere, pur in perfetta buona fede, la pedagogia con il consenso. Tante cose, dunque, ci sono da fare, nessuna però assomiglia a un ritorno. Perché persino nell’algida Francoforte c’è una novità ad alto valore simbolico: sulla poltrona più alta c’è un italiano.
Fonte: Corriere della Sera del 3 dicembre 2011Se non vogliamo morire per Francoforte
L'autore: Dario Di Vico
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