«Hai letto la nota di aggiornamento al Def. Ma come è possibile? La spesa pubblica è programmata aumentare dal 2012 al 2017 di 50 miliardi di euro?». È così, rispondo al mio interlocutore. Da un totale di 800 a 854 miliardi di euro. E a poco vale precisare che in percentuale del Pil atteso in questo sessennio la quota scende dal 51,2% al 48%, 50 miliardi son sempre 50 miliardi e fanno impressione e poi il Pil futuro, direbbe il cinico, è sempre sovrastimato nelle stime ufficiali.
Sono numeri che creano scompensi a chi odia la spesa pubblica, ovvio. Crea problemi pure nel campo opposto, a chi dice che questo Governo è quello dell’austerità. Meglio vedere da cosa viene questo aumento di 50 miliardi.
Non da lavoro dipendente e da appalti di beni e servizi, la spesa corrente, che complessivamente aumenta di soli 5 miliardi (un netto calo in termini reali ed in termini di Pil, addirittura del 2%). Aumento che poi si cancella, clamorosamente, con la diminuzione addirittura in valore assoluto della spesa programmata in conto capitale. La spesa per interessi è proiettata aumentare di poco più di 5 miliardi e qui l’ottimismo ufficiale si spreca, avendo il Governo modificato il suo modo di stimare l’andamento dei tassi d’interesse in maniera che fa alzare più di un sopracciglio. Comunque sia, rimangono all’appello 45 miliardi. Dove sono? Semplice. Nelle prestazioni sociali, 35 miliardi dei quali in pensioni. Che restano stabili in termini di Pil al 16%, divenendo nel 2017 un terzo della spesa totale.
Insomma, per capirci. I tifosi dell’anti-austerità non saranno felici dell’aumento di spesa in questione: sono meri trasferimenti, non domanda pubblica, quelli che spiegano l’aumento di spesa, non c’è dunque contenuto espansivo in questi numeri. Ai tifosi dell’anti-spesa, consolazione seppur magra, invece si potrà dire che non c’è un aumento della presenza dello Stato ma solo l’inevitabile conseguenza di un patto intergenerazionale da rispettare.
Più importante, sono numeri che paiono dirci che l’ingessamento del bilancio pubblico italiano, nel quale si rifugiano tutti coloro che sostengono come non vi siano risorse per finanziare azioni pubbliche a favore dell’economia, è effettivo, proprio a causa dell’andamento delle pensioni. O forse no. Forse, rovesciando la prospettiva, potremmo affermare che dal gestire quell’aggregato pensionistico intelligentemente si potrebbe trovare una soluzione alla crisi di fondi pubblici per la crescita che attanaglia il Paese in recessione.
Una possibile proposta potrebbe essere quella del taglio delle pensioni d’oro. Presto fatta, presto ritirata. A guardare i numeri dell’Inps si constaterebbe che più dell’87% della spesa pensionistica riguarda pensioni inferiori ai 3mila euro mensili, per lo più intoccabili anche da chi è mosso da forte senso di equità redistributiva. Ridurre anche del 20% il rimanente ammontare (se mai autorizzato costituzionalmente) porterebbe a benefici di minori spese di meno di mezzo punto di Pil, un ammontare quanto irrilevante per rilanciare l’economia, specie se tenessimo conto del caos politico e sociale in cui ci incastreremmo con un simile provvedimento.
Se le pensioni aiutano la crescita
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