• domenica , 22 Dicembre 2024

Se l’acqua non spegne l’incendio

Neanche questo G20 ha convinto i mercati. Come un incendio indomabile la crisi continua a bruciare risorse. I provvedimenti dei governi sembrano per un breve tempo soffocare le fiamme, che poco dopo però riprendono con ancora più forza. Ma perché i pompieri non si chiedono se per caso non stanno sbagliando strategia? Quello che hanno fatto finora è stato di tirare grandi secchiate d’acqua (i salvataggi, i tassi sottozero, i vari Fondi di sostegno, dal Tarp americano all’Efsf europeo e ora, col G20 di Cannes, più risorse all’Fmi). Ma siccome non basta continuano a cercare altra acqua (con i tagli feroci ai bilanci pubblici). Poco o nulla, invece, hanno fatto finora per combattere ciò che alimenta l’incendio.
I giganti incontrollabili della speculazione e i meccanismi senza regole della finanza globalizzata sono ancora lì esattamente come quando è scoppiata la crisi, e anzi trovano ulteriore alimento dall’enorme massa di liquidità a costo sottozero immessa nel sistema dalle banche centrali per evitare il collasso dell’intera economia. Intanto le autorità di controllo persistono nell’errore, come dimostrano i criteri scelti per valutare la rischiosità delle banche, che penalizzano quelle che prestano di più all’economia reale – come le italiane – a vantaggio di quelle che fanno trading finanziario e utilizzano di più l’effetto-leva (il multiplo degli impieghi rispetto al patrimonio), come le anglosassoni.
Nella prima grande crisi della finanza
globalizzata, quella europea del 1992, sotto attacco era il Sistema monetario europeo (lo Sme) che legava i cambi delle monete partecipanti limitando al 2,25% le oscillazioni tra di esse. Quando una valuta raggiungeva quel limite (al rialzo o al ribasso) tutte le banche centrali del sistema erano tenute ad intervenire sui mercati, in modo illimitato, per difendere quel livello di cambio. Lo schema era lo stesso di oggi: le banche centrali dovevano combattere contro attaccanti che avevano munizioni in quantità pressoché infinita e che avrebbero guadagnato enormemente nel momento in cui la barriera all’oscillazione fosse stata infranta, il che era inevitabile nelle condizioni date.
Il Regno Unito e subito dopo l’Italia furono costretti ad abbandonare lo Sme e svalutarono pesantemente. Allora la speculazione prese di mira il franco francese e il braccio di ferro si fece feroce. Allora come oggi l’alleanza Parigi-Berlino era l’asse portante dell’Europa e dunque per motivi politici la Francia non poteva essere abbandonata come era stato fatto con l’Italia. La guerra con gli speculatori andò avanti per circa un anno, poi gli assediati dovettero cedere: la banda di oscillazione fu portata al 15%. In altre parole, fu cambiata la regola dello Sme che rendeva possibile l’attacco, rendendone le condizioni assai più onerose. Solo questo mise fine alla lotta.
Nella crisi successiva, quella asiatica del 1997, i paesi del Far East subirono pesantissime conseguenze: drammatiche svalutazioni e crollo dell’economia reale. Le condizioni poste dal Fondo monetario per erogare i suoi aiuti furono simili a quelle imposte oggi ai paesi europei più in difficoltà, misure di austerità pesantissime che provocarono disordini in tutta l’area: a Bangkok, la capitale della Thailandia – che era stata l’epicentro della crisi – si contarono più di 500 morti. Un solo paese, la Malesia, rifiutò gli aiuti e le ricette dell’Fmi, seguendo invece la strada di imporre limiti ai movimenti di capitale (cioè cambiando le regole). Ne uscì meglio degli altri, come già allora osservò il premio Nobel Joseph Stiglitz.
Anche nella crisi attuale c’è stato un paese che ha rifiutato la linea Merkel-Bce-Ue-Fmi: l’Islanda, che ha applicato ricette del tutto diverse e fuori dall’ortodossia. E oggi per l’Islanda si parla di “miracolo”.
Il problema è che non si vuole ammettere che il sistema non funziona. Si caricano le colpe sulle politiche sbagliate dei singoli governi, che in effetti ci sono state, ma solo quella americana così disastrosa da essere determinante nello scatenare la crisi. Si dice che oggi i mercati non fanno altro che prendere atto della fragilità degli Stati che mette a rischio la restituzione dei debiti: è vero, ma con il loro attuale funzionamento stanno provocando un avvitamento che ci ha portati a un passo dalla catastrofe. E’ questo avvitamento che va bloccato, altrimenti non se ne esce.
Il fattore tempo è fondamentale. Per anni sono stati accumulati squilibri, almeno altrettanti anni – se va bene – servono per risanarli. Se gli americani (e non solo loro) si sono indebitati oltre il sostenibile bisogna dar loro il tempo di rientrare. Lo stanno facendo, da un tasso di risparmio negativo sono passati a uno del 5%: ma questo significa che i consumi Usa, che pesavano per il 70% del Pil e che sono stati per anni la benzina della crescita mondiale, per molto tempo non potranno più svolgere quel ruolo, e al momento i paesi in surplus che potrebbero farlo – Cina, Germania, Giappone – si rifiutano di sostenerlo. Lo stesso vale per gli squilibri dei bilanci pubblici: vanno risanati, ma cure troppo drastiche uccidono il cavallo, come si vede con la Grecia.
Ma i mercati non aspettano, agiscono i tempo reale. E i governi, invece di imbrigliarli, tentano di inseguire quelle che interpretano come loro richieste. Impresa impossibile, perché, appunto, i tempi dei due processi sono radicalmente diversi.
E’ possibile spezzare questo circolo vizioso? Certo, si potrebbe. Come insegnano le esperienze del passato, bisognerebbe cambiare le regole. E perché allora non si fa? Un po’ perché l’ultima ideologia, quella liberista – peraltro in una versione bastarda, visto che gli interventi pubblici ci sono e come – non riesce a morire. Un po’ perché una piccola ma potentissima fetta di classe dominante in questa situazione continua vergognosamente ad arricchirsi, e dunque si oppone a qualsiasi reale cambiamento. Negli Usa per esempio il Congressional Budget Office (il centro studi del Congresso) ha calcolato che tra il 1979 e il 2007 i redditi dell’1% più ricco della popolazione sono aumentati del 275%, mentre quelli del 20% più povero solo del 18%.
Alla fine i cambiamenti si arriverà a farli per forza, ma dopo aver fatto pesantemente peggiorare la vita della maggioranza che non conta.

Fonte: Repubblica del 7 novembre 2011

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