La decisione della cancelliera Merkel di ricapitalizzare le banche tedesche rappresenta una doppia svolta. Da un lato riconosce che la crisi si alimenta della continua interazione tra debiti sovrani e bilanci bancari e non è solo un problema di Paesi indisciplinati. Sarà necessario ora che l’intervento sulle banche sia ben coordinato a differenza di quello dell’ottobre 2008 che ha scatenato la crisi avviando l’interazione con i debiti sovrani.
L’altra svolta è l’ammissione che la “politica dell’incertezza” propugnata da Berlino è stata controproducente. In assenza di un assetto politico europeo in grado di costringere gli altri Paesi a disciplinarsi, la strategia tedesca è stata di lasciare spazio alla pressione dei mercati attraverso l’incertezza degli aiuti. La strategia prevede che Berlino rafforzi l’impegno politico per l’euro, ma al tempo stesso freni le soluzioni che possono stabilizzare la crisi l’acquisto di titoli della Bce, gli eurobond, l’ampliamento del fondo di stabilità per non togliere pressione alle riforme nei Paesi in crisi.
L’ultima riunione dell’Eurogruppo ha dato la misura di questa partita di poker. I prestiti alla Grecia sono stati rinviati per mettere pressione su Atene nei colloqui con la troika. Il Governo greco ha poi “scoperto” di avere una riserva ben nascosta che permette di evitare il default e infine ha rafforzato il pacchetto di riforme.
L’incertezza poteva servire se a trasformare l’economia greca fossero bastati uno o due anni. L’idea nasce dall’esperienza eccezionale dei Paesi dell’Est Europa che senza toccare il tasso di cambio con l’euro sono stati capaci di uscire dalla recessione del 2008-9 in brevissimo tempo. Ma quelle economie erano già “aperte”, gli investimenti esteri erano massicci, le banche in mani straniere, la catena produttiva integrata con le imprese dell’Ovest. L’economia greca è molto lontana da essere un’economia aperta e integrata. In tali condizioni il taglio di prezzi e salari – riuscito all’Est produce per ora solo recessione e debito. Recuperare produttività richiederà 5-10 anni che non possono trascorrere sempre sull’orlo del default.
L’alternativa al default e all’incertezza è una gestione comune della sovranità economica nei Paesi assistiti. Tra 15 giorni i governi dell’area euro discuteranno il piano di riforme presentato da Van Rompuy che darà personalità politica all’Eurogruppo, limiterà la cacofonia delle voci multiple dei governi e definirà il maggiore potenziale di assistenza finanziaria del fondo di stabilità. Potrebbe essere il momento giusto per capire quanta sovranità è possibile condividere.
Il ruolo dell’Italia è fondamentale. Se continuerà a ignorare le riforme richieste per ultima dalla Bce, dimostrerà che la soluzione politica sarà inefficace e che l’unica disciplina può venire dai mercati e dall’intimidazione del default. Se assumerà la propria responsabilità europea potrebbe togliere l’ultimo ostacolo all’integrazione politica a cui la stessa Germania già lavora.
La retorica pubblica tedesca sul futuro dell’Europa sta infatti cambiando. Il tema dell’unione politica europea sta diventando un orizzonte condiviso. La cancelliera Merkel lo ha posto come punto di arrivo della crisi. Il ministro delle Finanze Schäuble ha pubblicato domenica un manifesto da convinto europeista. Il probabile sfidante socialdemocratico alle prossime elezioni, Peer Steinbrück, ha stilato un programma per l’unione politica entro dieci anni, con accenti di forte europeismo. Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha aperto allo scenario del federalismo fiscale. Perfino il presidente della Corte costituzionale ha virato le sue riserve su una maggiore integrazione verso uno stimolo allo sviluppo del progetto europeo.
La prospettiva delle elezioni federali accelererà la svolta europeista della politica tedesca. Non deve sorprendere. Un cittadino tedesco su cinque ha dietro di sé una storia di immigrazione. Un bambino su tre viene da famiglie di “nuovi tedeschi”. Negli asili di Berlino e Francoforte la quota di immigrazione è del 60%. Nel cuore d’Europa e in un tale contesto sociale, non si può pensare che la retorica dell’identità possa prevalere su quella dell’integrazione. La grammatica dell’interdipendenza è un fatto acquisito nella vita di cittadini tedeschi il cui posto di lavoro dipende per il 50% dal commerci con l’estero e il cui reddito ne dipende per una quota anche maggiore. Quando il prossimo Governo avrà finito il suo mandato, metà degli elettori in età lavorativa non avrà mai usato la D-mark nella sua attività. Che senso storico può avere l’ipotesi di abbandonare la moneta comune europea per tornare al marco?
Le scelte dei prossimi 15 giorni, in Italia e a Bruxelles, sono un test esemplare per mettere alla prova l’integrazione politica che la Germania riconosce come orizzonte europeo. La crisi d’altronde non è una storia solo di truffe contabili greche, ma di cattivi intrecci finanziari che legano creditori e debitori, come dimostra il caso Dexia e di interazione tra Stati e banche. È nella natura umana cercare i colpevoli, siano i greci o siano i banchieri. Ma è nella natura della politica cercare prima le soluzioni e dare ad esse un contesto e un sostegno popolare. E questa crisi va risolta non come un problema di identità, ma come un problema di integrazione.
Se la Germania parla europeo
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