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Se i conti Usa li paga l’Europa

I sondaggi ci raccontano che non c’è mai stata un’elezione presidenziale americana dall’esito più incerto. Ieri la media delle rilevazioni segnava un vantaggio per il presidente Obama di solo lo 0,1%. Un divario tanto sottile da essere inutile per qualsiasi previsione. Così a Washington l’attenzione si è spostata sui sondaggi non delle intenzioni di voto (chi vuoi votare?), ma delle aspettative sul vincitore (chi vincerà secondo te?). In questo caso la differenza tra Obama e Romney è stranamente enorme, ben 20 punti. I sostenitori di Obama ne sono rincuorati perché in passato i sondaggi sulle intenzioni di voto hanno individuato il vincitore solo nel 69% dei casi, mentre quelli sul vincitore atteso lo hanno indovinato nell’81% dei casi.
Una differenza tanto ampia tra i due sondaggi suggerisce che gli elettori americani tengano separati opinioni e senso di realtà; scelta e necessità. Esprimono la loro delusione per una presidenza un po’ indolente, ma non riescono a convincersi che l’alternativa offerta da Mitt Romney sia realistica. Questa è d’altronde la raffigurazione stessa della campagna elettorale: Romney ha scandagliato l’immaginario degli americani appellandosi alle loro convenzioni ideali, la libera iniziativa e l’unicità americana, mentre Obama ha difeso il suo pragmatismo con toni introspettivi e spesso poco ispirati, puntando a dipingere l’avversario come inadeguato a gestire la realtà. Ritorcendo cioè su Romney il pegno che egli stesso, eletto sull’onda di slogan emotivi “speranza” e “cambiamento” – buoni sentimenti, ma non per forza solide strategie -, ha dovuto pagare alla realtà non appena entrato quattro anni fa nel labirinto della Beltway, la cinica cittadella politica americana.
A ridosso del voto, il realismo tende a prevalere sull’ideologia, così come avviene quando un uragano devastante dimostra l’utilità di uno Stato presente ed efficiente e mette in secondo piano la retorica sul leviatano che divora le tasse. Infatti negli ultimi giorni i sondaggi hanno registrato un marginale ritorno di consensi per il presidente in carica. La logica della campagna elettorale però non è cambiata e in questa contrapposizione tra retorica e realismo rientra il riferimento di Romney a un destino fiscale “italiano” per gli Stati Uniti. Un riferimento che non va affatto sottovalutato.
Come succede spesso nelle campagne elettorali, l’osservazione di Romney è l’altra metà di una mezza verità. È vero che il futuro fiscale americano assomiglia a quello del Sud Europa. Gli Usa sono su una traiettoria fiscale insostenibile dovuta a un divario strutturale tra tasse e politiche di spesa. Questo divario peggiorerà con l’invecchiamento della popolazione.
Il Congressional Budget Office prevede che il debito netto salga al 200% del Pil entro il 2037 e da lì segua un percorso esplosivo. La natura strutturale dei disavanzi fiscali è grave perché anche quando l’economia si riavvicinerà alla piena occupazione il deficit costringerà gli Usa a cercare prestiti all’estero. Una volta che il debito estero drena il reddito trasferendolo ai creditori stranieri, l’economia rallenta e il Paese finisce in una trappola di bilancia dei pagamenti del tipo di quella europea. Prevedere una crisi fiscale è difficile, ma nei quattro anni della crisi europea, a Washington l’allarme rosso su un destino “greco” per gli Usa è suonato più volte. Qui finisce la mezza verità. Il resto è molto meno intuitivo.
L’emergenza fiscale tocca due totem politici: le tasse per i repubblicani e il welfare per i democratici. Lo scorso anno, sicurezza sociale e sanità hanno contato per metà della spesa primaria federale. Il loro incremento è continuo, mentre le entrate fiscali da 50 anni sono costanti tra il 17% e il 19% del Pil. Solo tra il ’97 e il 2001 le entrate erano state superiori grazie alle tasse sui nuovi ricchi del boom tecnologico. Greenspan aveva gonfiato l’economia con beneficio del bilancio pubblico, poi i tagli fiscali di Bush e le spese militari hanno creato nuovi squilibri degenerati con lo scoppio della bolla finanziaria.
Sia Romney sia Obama sanno che la situazione è insostenibile, ma non hanno incentivi ad accordarsi. Romney può cavalcare l’ideologia repubblicana: vuole i tagli alle tasse per i ricchi e gli aumenti della spesa militare, con un impatto sul deficit di 7mila miliardi in dieci anni. Obama può accusare i repubblicani di aver sabotato ogni accordo negli ultimi quattro anni. Entrambi i candidati in realtà si sono seduti sulle loro mani da oltre un anno. Aspettano l’esito del voto per negoziare da posizioni che sperano di maggior forza.
Chiunque vinca, il 2013 sarà l’anno cruciale per il futuro fiscale americano. Il voto di martedì ci dirà quali saranno i nuovi rapporti di forza a Washington, ma senza un rapido accordo, le agenzie di rating potrebbero declassare ulteriormente il debito Usa. La capacità americana di fornire al resto del mondo titoli sicuri in cui investire non terrebbe più il passo con la crescita dell’economia globale. Il ruolo di valuta di riserva dovrebbe essere coperto anche da altre valute. L’unicità americana, il privilegio esorbitante di battere moneta per il mondo, potrebbe finire di colpo. In parte questo dipende dal destino dell’euro. E questo a sua volta dipende dal destino italiano. Il riferimento un po’ sprezzante al Sud Europa nasconde dunque una delle partite economiche più importanti dei prossimi anni.

Fonte: Sole 24 Ore del 3 novembre 2012

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