di Giuseppe Pennisi
Il quadro di nascite e morti l’anno scorso presentato da un recentissimo rapporto ISTAT è, quanto meno, inquietante. Nel 2020 si registra un nuovo minimo storico di nascite dall’unità d’Italia, e un massimo storico di decessi dal secondo dopoguerra. Viene rilevato un calo del 3,8% delle nascite: quasi 16 mila in meno rispetto al 2019. Mentre i decessi sono aumentati del 17,6%: quasi 112 mila in più rispetto al 2019. Nel 2020 sono state cancellate dall’anagrafe per decesso 746.146 persone.
L’Italia è stata tra i primi Paesi dell’Unione europea in cui la presenza del Covid-19 si è manifestata maggiormente sulla demografia. La diffusione dell’epidemia è stata caratterizzata da tre fasi: il periodo da fine febbraio a fine maggio (prima ondata), contraddistinto da una rapidissima ascesa dei contagi e dei decessi, entrambi concentrati soprattutto nel Nord del Paese; una transizione (da giugno a settembre) con un rallentamento dei contagi per effetto delle misure di contenimento su scala nazionale adottate nella primavera (lockdown); una seconda ondata epidemica, a partire dalla fine di settembre 2020, con una drammatica riacutizzazione dei casi e un incremento dei decessi su tutto il territorio nazionale.
Questa “istantanea” relativa al 2020 deve essere inserita nelle stime a medio e lungo termine pubblicate prima della pandemia. L’ISTAT ha prodotto vari scenari. Sulla base dello scenario di previsione “mediano” la popolazione residente è prevista in lieve decrescita nel prossimo decennio: da 60,7 milioni al 1° gennaio 2016 (punto base delle previsioni) a 60,4 milioni nel 2025 per un tasso di variazione medio annuo pari al – 0,5 per mille. In un’ottica, invece, di medio termine, la diminuzione della popolazione risulterebbe già molto più accentuata: da 60,4 milioni a 58,6 milioni tra il 2025 e il 2045, pari a un tasso di variazione medio annuo che, triplicandosi rispetto a quello della prima fase, si porta al -1,5 per mille. È nel lungo termine, tuttavia, che le conseguenze della dinamica demografica si fanno più importanti.
Tra il 2045 e il 2065, infatti, la popolazione diminuirebbe di ulteriori 4,9 milioni, registrando una riduzione medio annua del 4,4 per mille. Sotto tale ipotesi la popolazione totale ammonterebbe a 53,7 milioni nel 2065, con una perdita complessiva di 7 milioni di residenti rispetto a oggi. “Le previsioni – amava dire Oscar Wilde – sono difficili se riguardano il futuro”. L’ISTAT afferma che “sebbene non sia esclusa l’eventualità che la dinamica demografica possa condurre a una popolazione nel 2065 più ampia di quella odierna, la probabilità empirica che ciò accada è piuttosto bassa risultando pari al 7%”. Il linguaggio è tra il tecnico-statistico ed il burocratico, ma è eloquente.
La tendenza è marcata nei Paesi industrializzati ad economia di mercato a reddito medio elevato. Potrebbe, però, espandersi a livello globale. Mentre nel 1968 sulla scia del libro di Paul Ehrlich The Population Bomb si tratteggiava un futuro di crescenti carestie e di popolazioni in fuga verso continenti dove le prospettive sono migliori, poco prima della pandemia due economisti canadesi, Darrell Bricker e John Ibbistson, in Empy Planet argomentano che il tasso di fertilità sta diminuendo in tutto il mondo al di sotto del “tasso di sostituzione” di 2,1 figli per donna. Alla lunga, dopo avere raggiunto un plateau, la popolazione mondiale comincerà a contrarsi. Nel 2020, in Cina, dove il Covid pare essere stato arrestato sul nascere, le nascite hanno avuto una contrazione del 15%, molto maggiore di quella registrata in Italia.
A tratteggiare un quadro ancora più fosco, ove mai ce ne fosse bisogno, Charles Jones dell’Università di Stanford afferma, in alcuni suoi lavori recenti, che il decremento della popolazione comporta una riduzione di nuove idee e di progresso tecnologico; non per nulla, l’età delle innovazioni tecniche e scientifiche è associata al periodo di forte incremento demografico nei Paesi oggi ad alto reddito medio. Se e quando non avremo più la pressione di essere in troppi, ma anche la sensazione di diventare in pochi, mancherà la sfida concorrenziale di investire in ricerca e istruzione per produrre meglio e di più.
In che modo può essere utile la politica economica in questo quadro? Non sembra che una politica fortemente natalista come quella perseguita dalla Francia dopo la battaglia di Sedan del 1870, quando i francesi, pochi e mingherlini, vennero sconfitti dai Prussiani, numerosi e ben impiantati, stia dando i frutti sperati: negli ultimi trenta anni, il tasso di natalità è tornato a 2,1 per donna principalmente grazie alla fecondità delle donne immigrate.
La leva su cui premere pare essere quella indicata da Charles Jones: maggiore accento su ricerca, innovazione ed istruzione da conseguirsi anche accentuando la concorrenza e la competitività.
Fonte: Da Il Commento Politico del 30 Marzo 2021