• venerdì , 22 Novembre 2024

Se Atene non paga i debiti, perchè deve farlo Lisbona?

Con il «soft default» greco, l’Unione europea ha perso l’occasione per dare un segnale di serietà e di forza. Che avrebbe restituito il prestigio di cui ha così bisogno.
Se fosse vero che in politica si fa quel che si può, non ciò che si deve, potremmo giustificare le scelte dell’Unione europea che ha ritenuto possibile far uscire dalla crisi la Grecia attraverso una forte deflazione, ma così non è: la crisi finanziaria internazionale è stata usata per indurre i cambiamenti negli accordi europei voluti da alcuni Paesi membri per imporre la loro visione politica all’Unione.
Tutti concordano che la Bce ha salvato l’euro, ma non ha risolto il problema delle lacune istituzionali dell’Ue, essendosi limitata a spalmare moneta sul malfunzionamento dei patti europei; per poterlo fare ha sostenuto che l’accordo fiscale deflazionistico era necessario e non controproducente per lo sviluppo necessario a garantire la stabilità monetaria. Il cambio di marcia dell’Ue avverrebbe realmente se l’obiettivo della crescita – a favore di tutti e non di pochi – fosse riportato al centro della sua politica. Per ora non ci siamo.
Tra i meriti della Bce vi è anche quello di avere contrastato il soft default (insolvenza moderata) del debito greco, una soluzione che si è incorporata nelle aspettative del mercato sui debiti sovrani europei in difficoltà. Il banco di prova di questa ipotesi sarà la sistemazione del debito del Portogallo. Se la Grecia ha potuto non rimborsare la metà del suo debito, perché non dovrebbe farlo questo Paese e, di seguito, anche gli altri?
A questo punto la politica europea deve fare ciò che deve, perché nessuno può onestamente affermare che non si potesse sistemare l’intero debito greco fornendo una garanzia europea, allungando fortemente le scadenze e agevolandone un basso costo, ma dimostrando chiaramente che in Europa i debiti si onorano.
Avrebbe inviato al mondo un messaggio di serietà e di forza che avrebbe restituito all’Unione il prestigio internazionale di cui ha necessità per contare nella definizione degli equilibri geopolitici, invece di farla dibattere nelle spire della deflazione e della disoccupazione. Non vi è consesso, né incontro conviviale, né colloquio privato dove i partecipanti non indichino che il loro problema, come imprenditori o consumatori, è di non capire dove ci stia portando l’Europa e il governo dei tecnici in Italia, limitandosi a sperare che non sbaglino.
Di conseguenza si ridimensionano la produzione e il consumo e si preferisce investire all’estero, mentre i problemi del mondo non sono meno gravi di quelli europei. In tal modo si getta un’ombra sulle libertà democratiche. Forse anche più di un’ombra, come hanno giustamente sottolineato autorevoli commentatori e responsabili di importanti istituzioni dello Stato.
Il quesito è quale sia la ragione per cui la politica non sta più a sentire la voce del popolo. Una nuova élite si arroga il diritto di interpretare i bisogni dei cittadini e non ha il pudore di affermare apertamente che intende costringerli a cambiare modello di vita, anche sospendendo il funzionamento di una democrazia che non produce il benessere economico ritenuto indispensabile.
Questa è una china pericolosa in cui l’Europa, con l’Italia, ancora una volta si è collocata, copiando una soluzione che le dittature del Novecento hanno imposto alla società europea con l’obiettivo di dare a esse prestigio internazionale e sviluppo. La democrazia comporta il rispetto della volontà popolare, anche se sbaglia; anzi la democrazia è il diritto degli elettori di sbagliare, purché si assumano le relative responsabilità.
Le correzioni devono quindi scaturire dall’interno dei popoli e non essere imposte dall’esterno. Passare quindi dall’educazione civile e non dalla forza dello Stato. Su questo punto non può esservi margine di trattativa o di interpretazione.

Fonte: FULM del 22 marzo 2012

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